Una fede alla prova: tra secolarizzazione e pluralismo.
È stato pubblicato nel mese di ottobre dello scorso anno un interessante e agile lavoro di Vincenzo Bova, dedicato alla disamina dello stato del cattolicesimo italiano.
“Una fede alla prova. Sociologia del cattolicesimo italiano” è un libro di agevole lettura ricco di contenuti meritevoli di analisi e, soprattutto, generativi di piste di riflessione; il suo autore insegna Sociologia delle Religioni all’Università della Calabria e ha dedicato numerosi studi alle manifestazioni attuali dell’identità religiosa dei cattolici in Italia.
Il libro presenta quattro ampi capitoli, i primi due strettamente intrecciati, con sottolineature degne di nota; meritano di essere segnalate le pagine dedicate, con tratti brevi ma particolarmente efficaci, alla realtà giovanile.
Gli effetti della “modernizzazione” sulla religiosità
E tuttavia, gli elementi di maggiore interesse risiedono nella parte del lavoro dedicata ad indagare il tema dell’incastro tra la modernizzazione e la religione (cattolica), ossia su ciò che il processo di modernizzazione ha determinato sulla religiosità e, a sua volta, quello che quest’ultima ha generato per l’Italia.
La riflessione muove i suoi passi nella dichiarata intenzione di investigare, in particolare, gli effetti che la pluralizzazione delle esperienze, contenuti e forme del credere che connotano l’esperienza ecclesiale contemporanea della Chiesa, abbia generato nel contesto sociale e culturale italiano, ricevendone ed elaborandone le provocazioni.
È dato per scontato, d’altro canto, che la scelta sia stata improntata alla accettazione della complessità del quadro, rinunciando alla pretesa di ridurlo e di ricondurlo entro codici normativi stabili e certi.
La riflessione si innesta sulla intuizione secondo la quale la pluralizzazione costituisce una sorta di risposta alla contemporaneità, segnata “non già dalla secolarizzazione ma, in maniera necessariamente simile dappertutto, dal pluralismo”.
La secolarizzazione è essenzialmente una trasformazione
È una nota tesi di Berger e di Taylor che Bova sottolinea affermando che la secolarizzazione è essenzialmente una trasformazione dei modi del credere e non la scomparsa del credere stesso; l’autore ne opera una specificazione, rilevando che la Chiesa italiana ha assecondato (o forse subito) questo fenomeno, tentando di rinnovare il proprio messaggio religioso per renderlo più aperto alla società e così generando al proprio interno un pluralismo di opzioni religiose che probabilmente non prevedeva e non desiderava.
Così Berger riportato molto opportunamente nel libro (pag. 24): “La pluralizzazione istituzionale che caratterizza la modernità incide non soltanto sulle azioni umane ma anche sulla coscienza umana … in altre parole si arriva ad avere una placida continuità tra le scelte di consumo operate nei diversi settori della vita: la preferenza per una determinata marca di automobile piuttosto che per un’altra, per un certo tipo di vita sessuale piuttosto che per un altro, e alla fine la decisione di optare per una particolare preferenza religiosa”.
Una dinamica che si è innestata anche all’interno dell’esperienza religiosa dei cattolici italiani, connotata da diversi modi di credere e da assunzione di contenuti molto distanti tra loro su elementi centrali.
Il rapporto tra “carisma e istituzione”
Nell’esaminare il nodo del rapporto tra “carisma e istituzione”, la riflessione cita il noto pensiero di Giovanni Paolo II che vide nella pluralità dei cammini la “primavera della Chiesa nei quali l’aspetto carismatico e istituzionale appaiono quasi come essenziali alla costituzione della Chiesa stessa”; al tempo stesso suggerisce al lettore e a chi guarda il fenomeno una considerazione critica se non proprio sulla bontà della intuizione quantomeno sulle modalità della sua traduzione nella prassi.
Non si potevano “fermare i prezzi con una mano” – come dice un delirante e geniale slogan pubblicitario – ma al lettore viene il sospetto che si dovesse governare il flusso innervandolo in una dimensione più autenticamente ecclesiale.
A cascata, dalle tesi contenute nel testo vengono suggerite riflessioni che rendono visibile un effetto “liberi tutti” e una sorta di anarchia generalizzata che ha messo il clero – anche a fronte di una strutturale e in parte voluta debolezza del laicato tradizionale – nelle condizioni di potersi determinare in maniera disorganica.
I frutti di questa scelta
Che l’Autore indica anche nella crisi della figura dei presbiteri, conducono ad individuare una serie di guasti che spiegano oggi la difficoltà di ricezione – ad esempio – dell’insegnamento di Papa Francesco e, cosa ancor più significativa, ad inverare l’autentico stile sinodale proposto.
Un secondo passaggio pare degno di essere sottolineato: la considerazione secondo la quale la facoltà di garantire ad ogni singola aspirazione di esperienza religiosa una piena legittimità al fine di non perdere i fedeli, abbia finito per ingenerare una inversione dell’ordine di appartenenza.
“C’è spazio per tutti vuol dire allora accogliere chi volontariamente bussa alle porte di queste esperienze scegliendo di aderire ad una comunità piuttosto che ad un’altra, come dire non sei Tu che hai scelto me ma sono io che ho scelto Te” (pag. 24).
Una esperienza sostanzialmente agli antipodi del Vangelo
Questa dinamica, ulteriore nota, secondo l’autore, oltre ad aver destrutturato l’autorità e l’unitarietà, ha finito per ingenerare una sorta di interruzione “del percorso di quanti vedono sé stessi come anello di una catena in cui non si è né l’origine né la fine. Il passaggio dall’io al noi è in un percorso di verifica di corrispondenza emozionale in cui il totalmente Altro ha un ruolo sempre più marginale”.
È un’affermazione forte che lascia spazio alla considerazione secondo la quale questa dinamica sembra aver assecondato il bisogno di natura individuale di dare risposta a questo bisogno del singolo, sganciandolo la visione da un valore, da una credenza condivisa e legando questo anelito ad una esigenza di appartenenza sviluppata attorno all’individuale ricercando non l’Essere ma il proprio benessere.
Una esaltazione dell’Io moderno – magari nell’accezione di Magatti e Giaccardi – costruito pensandosi “distinto e autonomo da tutto ciò che lo circonda (famiglia, comunità, storia, cultura eccetera). Distaccandosi dalla tradizione, dei vincoli familiari, dalle appartenenze originarie, da Dio, … atomo autosufficiente auto determinato. Un IO astratto …, sovrano di sé stesso … impegnato ad evitare ogni interferenza, contaminazione, debito che crei obbligazioni e legami”.
Collocato in questo quadro, il lavoro di Bova coglie allora il senso di una intima contraddizione degna di essere messa in luce: l’inganno vissuto nell’attivazione di un desiderio – autentico ma talvolta non maturo – di comunità.
“Lo stare insieme diventa il valore assoluto, che prescinde dalla ragione per cui si sta e si è. La comunità da strumento per un percorso di salvezza diventa dunque, fine a sé stessa … Non educa ad essere Chiesa, ma risponde ad un bisogno di natura individuale e la sua efficacia sta nell’essere risposta a questo bisogno del singolo. La comunità non è più uno degli anelli che compongono la catena di una discendenza credente, ma un insieme di relazioni auto-centrate e solo strumentalmente connessa alla Chiesa istituzionale di cui pur si dichiara parte. In tal senso si consolida la prassi che origina un modello comunitario corrispondente al bisogno molto moderno di sentirsi artefici dell’appartenenza a un “noi” liberamente scelto e che, altrettanto liberamente, si può lasciare. La comunità deve essere altrettanto facile da smantellare di quanto sia stato costruirla” (pag. 27).
Comunità, sì, ma intorno a cosa?
Il testo individua – a giusta ragione, a mio parere – l’assenza dell’elemento unificante. Non si tratta di un rischio o di una interpretazione solo teorica se è vero che uno dei primi e più significativi interventi di Papa Francesco dopo la sua elezione è stato quello di ricordare che “se la Chiesa non confessa Gesù Cristo è solo una ONG che cammina e null’altro”.
Nel rimandare per il resto alla lettura del volume, una ultima considerazione – o per meglio dire – un ulteriore campo di esame si propone al lettore e riguarda gli effetti che la moltiplicazione delle proposte e dei cammini ha generato sulla efficacia della presenza dei cattolici nel dibattito sociale e politico.
In sottofondo al lavoro di Bova, si rileva come la moltiplicazione delle esperienze sotto il grande tendone destinato ai diversamente fedeli abbia strutturalmente indebolito le voci del laicato, non solo afono nel dibattito pubblico, ma anche privo di luoghi nei quali sperimentarsi nella formazione e nel confronto.
Quale contributo può portare oggi un laicato così frammentato e non formato?
Non si tratta di vagheggiare o tantomeno invocare anacronistici ritorni al passato, ma di avviare una seria opera di riflessione sulle scelte compiute, che meritano di essere indagate e rilette alla luce degli effetti che oggi si registrano.