A un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina non è facile dire cosa sia cambiato nel mondo. C’è chi legge le cose in maniera semplice. Si parla di fine della globalizzazione e con essa dell’ipotesi di un sistema mondiale cooperativo ed aperto. Che sarebbe stato sostituito da una nuova contrapposizione globale di potenza, sostanzialmente identificata con uno scontro tra democrazie occidentali e potenze autoritarie del mondo asiatico. Ritorna in voga un immaginario legato all’eredità della guerra fredda, difficile da sradicare dalle menti non solo popolari, ma anche di esimi intellettuali e politici: saremmo tornati a uno scontro globale tra sistemi ideologicamente definiti. Naturalmente c’è una versione compiaciuta e ottimista di questo scenario, e un’altra lettura piuttosto preoccupata e problematica, che teme evoluzioni ancora più drammatiche.

Mi sembra di poter dire che in realtà le cose si stanno mostrando molto più complesse. È in atto una transizione più articolata e ricca di elementi contraddittori, che può portare ancora in direzioni diverse. C’è ad esempio una rete di interdipendenze che lega insieme strutturalmente i diversi soggetti e che non è stata affatto eliminata dal conflitto in atto. Quindi – c’è poco da fare – tali legami oggettivi implicano una gestione del vincolo reciproco, che non è eludibile. Si pensi al fatto che la Cina dipende ancora dai mercati occidentali per la sua crescita e al parallelo discorso per cui essa detiene una quota cospicua del debito pubblico statunitense nelle proprie riserve. In questa rete, nessuno dei protagonisti è del tutto libero di poter fare la politica di potenza che potrebbe essere portato a fare o vorrebbe eventualmente fare. La dimostrazione sembra essere anche evidente nel fatto che – nonostante la retorica bellicista a tratti esondi ogni limite – tutte le grandi potenze hanno operato esplicitamente per evitare lo scontro militare diretto con una delle altre. C’è stata insomma, almeno a questo livello, un’autolimitazione complessiva che ha tenuto, pur in questo anno tremendo.

Nessuno, peraltro, tra i protagonisti della scena globale ha ottenuto in quest’anno di guerra maggiore influenza e ha rafforzato significativamente la propria capacità di azione (come osserva con dovizia di particolari l’ultimo numero speciale di «Foreign Affairs»). Non l’ha ottenuta con ogni palese evidenza l’aggressore russo: Putin parla ancora di voler ripristinare una potenza statale imperiale che è sottoposta a limiti militari ed anche economici, dato che lo scontro che egli ha innestato ha provocato una dura reazione.  Ma nemmeno gli Stati Uniti hanno dissipato del tutto le ombre suscitate dall’inglorioso ritiro dall’Afghanistan che ha messo fine a vent’anni di retorica sulla propria ambiziosa volontà di costruire all’estero un mondo a propria immagine: l’intervento a sostegno della resistenza ucraina ha rilegittimato una Nato decadente e ha mostrato (anche a fini interni) una solidità disposta a notevoli investimenti finanziari, ma non ha dato per ora l’idea di una strategia lungimirante e operativa di riaffermazione della propria leadership globale. Nemmeno la Cina può godere di un rilancio di potere, imbarazzata come si mostra del legame di alleanza con la Russia e timorosa dei contraccolpi sulla situazione interna delle crisi nei rapporti commerciali globali (proprio quando la gestione della pandemia Covid ha forse per la prima volta mostrato seri limiti nella pretesa di controllo dell’onnipotente partito-padre). Non parliamo dell’Unione europea, ancora debole e poco coerente come visione comune (al di là dell’esposizione anche eccessiva della Commissione in chiave di appoggio alla resistenza ucraina): il forte riarmo previsto dal governo tedesco non è certo un segnale di rafforzamento comune. Considerazioni analoghe potrebbero essere fatte sul piano di riarmo giapponese in Asia: si collega a una strategia di influenza nazionale assertiva oppure è un ulteriore segnale di reazione alla propria fragilità geopolitica? Si pensi poi al fatto che c’è un mondo pluralistico e rilevante, che sta fuori dai grandi raggruppamenti e che non si è schierato nella guerra in corso, lucrando qualcosa ai margini in termini commerciali (comprando ad esempio petrolio a sconto in Russia): dall’India al Brasile, al Sudafrica, alla Turchia. Sono tutti paesi che non si sono allineati pedissequamente all’Occidente. Nemmeno questi attori sembrano però poter parlare con una voce sola e ipotizzare un obiettivo politico comune, nel nuovo scenario che sta venendo alla luce.

Quindi qualcosa sta certamente cambiando, ma non c’è un’inversione di rotta definitiva e irreversibile: si accorciano le catene produttive; si ritorna a voler tutelare alcune industrie strategiche (si pensi all’investimento pubblico Usa nel digitale e nell’industria verde); sono state introdotte alcune restrizioni doganali; continua la politica delle sanzioni alla Russia. Tutto ciò non pare sufficiente per parlare di un mondo definitivamente diviso e parcellizzato. Tra l’altro, la Russia ha mostrato di adattarsi alle sanzioni meglio di quanto la propaganda occidentale inizialmente aveva previsto: certo il paese soffre di conti pubblici in difficoltà, sistemi finanziari fragili esclusi dal quadro globale, riduzione di introiti dell’esportazione di materie prime energetiche, disoccupazione crescente: ma a quanto pare niente di così drammatico da poter portare Putin al crollo interno in tempi brevi. Il rublo ha recuperato, la produzione ha perso meno del previsto. Come anche, per speculare andamento, va notato che l’impatto negativo delle sanzioni sull’Occidente si è assestato forse prima di quanto i più pessimisti osservatori prevedevano (con costi diversi, certamente, tra l’Europa più esposta e gli Stati Uniti molto meno toccati). Ma può essere questo un argomento per sostenere l’indefinita durata del modello? Possiamo immaginare la continuazione delle sanzioni come più efficace nel lungo periodo? Ed intanto sopportare altri drammi bellici?

Se tiene questo scenario complesso, che dire rispetto alle aspettative sulla guerra, che resta aperta come una ferita nella coscienza del mondo, un’«assurda follia», come instancabilmente richiama papa Francesco? L’impressione di uno stallo sul terreno è ormai solida. Sicuramente la Russia – per i suoi propri limiti e per effetto del comprensibile sostegno occidentale alla resistenza ucraina – non può più illudersi di ottenere quello che sembrava l’obiettivo iniziale dell’invasione: il cambio di governo a Kyiv, il cospicuo ridimensionamento territoriale e la sostanziale subalternità dell’Ucraina, ricondotta alla sfera imperiale moscovita. Dall’altra parte – come ha autorevolmente sostenuto in pubblico il generale Mark Milley, capo di Stato maggiore congiunto delle forze armate Usa – è difficile immaginare che le forze ucraine abbiano la capacità di riconquistare tutti i territori occupati e cacciare i russi dai confini del 2014: tantomeno di provocare contraccolpi tali tra gli aggressori da insidiare seriamente la stabilità del regime di Putin.

Si può allora immaginare un’escalation drammatica? Certo, il tabù nucleare (cioè la coscienza delle irrimediabili distruzioni che attendono automaticamente chi per primo utilizzi l’arma atomica) per ora ha retto e sembra reggere anche nelle stesse dichiarazioni dei protagonisti: il monito cinese ha molta importanza a questo proposito. Ma allora, impiegare più armi, lanciare nuove offensive, intensificare gli sforzi, che obiettivo ha realisticamente? Gli osservatori più cinici parlano apertamente di un rilancio diretto solo a migliorare le posizioni in vista di un possibile negoziato. Ma non è stato dato già abbastanza da tutti i protagonisti? Possono gli attori del dramma, possiamo noi tutti spettatori coinvolti, accettare nuovi massacri senza che venga definito un obiettivo politico realistico?

I pubblici discorsi di tutti i protagonisti sono ancora fermi alle petizioni di principio: da Zelensky a Biden (che ha parlato a Varsavia, quasi a indicare un sostegno alla parte di Europa più intransigente, speriamo senza voler esplicitamente dividere l’Ue), fino a Putin a Mosca. Anche l’Onu è ancora teatro di una presa di posizione dell’assemblea che ribadisce solo la condanna dell’aggressione: non viene apparentemente rilanciata come orizzonte della ripresa di un confronto. Il clima dell’opinione pubblica europea (e italiana) continua a essere piuttosto plumbeo. Appare ancora maggioritaria la posizione di chi si accontenta di ribadire l’impegno contro l’ingiusto aggressore, senza porsi apparentemente il problema delle conseguenze, del passo politico successivo, degli obiettivi reali da ottenere con tale impegno. Il tema più discusso appare la qualità militare degli aiuti: cosa si può aggiungere agli armamenti inviati in Ucraina. E si continua a parlare dell’ipotesi di una vittoria del paese aggredito. Cosa significa però precisamente – data tutta la storia e la vicenda precedente dell’area – configurare una vittoria che porti a una giusta pace? Stiamo tornando a pensare che la guerra possa portare a una vittoria secondo la concezione, tipica del primo Novecento, della guerra totale? Una vittoria che coincida con la distruzione del nemico, almeno una distruzione politica se non fisica e materiale?

Non a caso, però, appaiono voci che finalmente provano a cambiare il quadro, illuminando gli spazi di cambiamento. Romano Prodi ha invocato l’affiancamento della diplomazia per iniziare a guardare al futuro dopo le decisioni sull’invio di armi, in un editoriale di fine gennaio. Il venerando centenario Edgar Morin ha scritto un libro per invocare una pace «senza vincitori né vinti». Jürgen Habermas ha proposto una riflessione di spicco, partendo dall’accettazione del sostegno all’Ucraina aggredita. Ha sostenuto con forza che non sia possibile per la coscienza dell’Europa e dell’Occidente lasciar «perdere» agli ucraini la guerra. Ma questo concetto è appunto a suo parere sottilmente ma decisivamente diverso dall’ipotesi di una vittoria totale, oggi inattingibile.

Il punto è quindi ormai domandarsi quale forma possa assumere un negoziato che metta sul tavolo tutte le possibilità per raggiungere un modo di fermare questa guerra con «compromessi tollerabili», come dice appunto Habermas. Naturalmente, per impostare un processo di questo tipo il punto di vista dei protagonisti principali è fondamentale. Ma non può essere considerato l’unico argomento da considerare: se l’Europa (e gli Stati Uniti) sostengono che l’unico che possa decidere quando e come negoziare è il governo di Kyiv, questa impostazione trascura il fatto che le alleanze che si sono costituite hanno il dovere di aggiungere agli aiuti militari il consiglio politico per trovare un modo onorevole per concludere il conflitto. Che è un obiettivo morale. È quindi profondamente sbagliato contrapporre chi vuol difendere l’Ucraina aggredita ai pacifisti imbelli e astrattamente fuori dalla realtà. C’è una forza morale nel chiedere il negoziato e una via d’uscita, che si esprime proprio dopo aver fatto la propria parte nell’impedire una rovinosa sconfitta del paese aggredito. I primi cenni di un nuovo approccio cinese con i 12 punti annunciati in questi giorni, ancora molto generali, vanno in questa direzione.

I temi su cui le grandi potenze tutte dovrebbero concordare un percorso per far cessare le ostilità non sono poi molti: essi giostrano attorno alla questione della futura indipendenza dell’Ucraina, del suo status internazionale e del destino dei territori contesi, in cui è indispensabile si ascoltino i punti di vista delle popolazioni coinvolte. Ma su questi delicatissimi argomenti si innesta il ruolo delle reti internazionali nel creare le condizioni di un ritorno allo status quo precedente l’avvio dell’invasione russa, con possibili punti di intesa almeno provvisori. Che dovrebbero essere inseriti in una risistemazione potenziale di tutto l’orizzonte geopolitico dell’Europa orientale, che tenga conto degli interessi in gioco in modo da ricomprenderli in un tessuto di convivenza, o almeno di non ostilità aperta. L’insieme di queste proposte dovrebbero convincere anche Putin a fermare le armi, per mancanza di alternative raggiungibili. Non c’è altra via che questo coraggioso itinerario per mettere fine a massacri e distruzioni.

 

(Foto di Nick Tsybenko su Unsplash)

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.