Un dato emerge con palmare evidenza dalla consultazione elettorale in Lombardia: il vincitore indiscutibile è stato il “partito del non voto”, l’astensionismo, quel poco meno del 60 % degli aventi diritto che ha disertato le urne. È inutile girarci intorno: lo scarso appeal delle elezioni regionali rispetto a quelle politiche o alle comunali, in cui si sceglie chi guiderà l’amministrazione di una comunità locale; la brevità della campagna elettorale o il fatto di presumere in anticipo chi sarebbe stato il vincitore, vale a dire il presidente uscente Attilio Fontana, dato come sicuro in tutti i sondaggi; e ancora: una bassa affluenza ormai fisiologica. Queste le possibili spiegazioni di una emorragia di centinaia di migliaia di voti: più di un milione per il candidato di destra-centro e circa mezzo milione per Majorino, che pure ha ottenuto una percentuale più elevata rispetto a quella di Giorgio Gori di cinque anni fa, il 33,9% rispetto al 29% circa. In realtà sia che la diserzione dalle urne venga letta come protesta sia che venga interpretata come espressione di indifferenza, la motivazione fondamentale del non voto è da individuare nella mancanza di un’offerta politica chiara, convincente, appassionante da parte dei partiti. Essi restano dunque i principali imputati del fenomeno in atto. Neppure la carta della personalizzazione riesce ormai a ravvivarli, anche se lanciano nella mischia ipotetici “governatori”, come ormai vengono impropriamente chiamati i presidenti di regione.
Questa considerazione peraltro dovrebbe indurre una qualche riflessione e la predisposizione di opportuni rimedi in una situazione in cui si annuncia una riforma di stampo presidenzialistico e si intende procedere, come dichiara Roberto Calderoli, a marce forzate verso un’autonomia differenziata che non è certo preludio di maggior partecipazione soprattutto nel Mezzogiorno. Né è prevedibile che a urne sempre più vuote possano corrispondere piazze piene di cittadini presenti a protestare in un tempo come il nostro di diffusa apatia. Dunque dalla Lombardia un ulteriore segnale d’allarme per la qualità della convivenza democratica. Come sostengono autorevoli osservatori, nell’ambito di un trend certamente trasversale, sono stati in maggioranza gli elettori potenzialmente di centrosinistra –soprattutto giovani- a non esprimere il proprio voto, e questo a maggior ragione in una campagna elettorale amorfa, spenta, anestetizzata come quella a cui abbiamo assistito: incontri pubblici assai ridotti, partiti rinserrati nelle proprie sedi, nessun dibattito tra candidati che desse il segno di proposte nettamente alternative e in competizione, parole d’ordine assai generiche –“porterò in Regione le domande dei cittadini”, “darò rappresentanza ai bisogni del territorio”- ricerca della preferenza all’interno del proprio partito e bacino elettorale per sottrarla ad altri componenti della stessa lista anziché per cercarla in campo avversario, modesta disponibilità di risorse finanziarie per produrre manifesti, materiale cartaceo –pochissimi i tradizionali “santini” in circolazione-, per acquistare spazi televisivi e persino una diffusione scarsamente virale della comunicazione e propaganda digitale. Un astensionismo quasi certamente asimmetrico che penalizza soprattutto il Pd, non solo in ragione di un elettorato “riflessivo”, particolarmente esigente e critico nei confronti delle divisioni presenti e operanti nella contesa interna, ma ancor più disorientato dalle geometrie variabili quanto alle alleanze proposte –in Lombardia con i Cinque Stelle, nel Lazio con il Terzo Polo-, alle difficoltà, titubanze, incertezze e contraddizioni con cui sono state costituite. E ancora: la difficoltà e lo sbandamento a designare il candidato presidente.
Prima infatti la ricerca della personalità “forte” –Carlo Cottarelli-, poi primarie sì e primarie no –il caso di Pierfrancesco Maran-, quindi l’appello al sindaco di Brescia –Emilio Delbono-, infine l’extrema ratio di Majorino, un candidato rispettabilissimo, ma scarsamente conosciuto, un leader in costruzione in un tempo in cui la politica è sempre più ridotta a leaderismo. C’è un secondo dato desumibile dai risultati verificatisi in Lombardia. Ed è opportuno richiamarlo anche perché espressione di una tendenza che in futuro potrebbe proiettarsi sul dato nazionale, seppure il meccanismo proporzionale delle prossime elezioni europee non deponga a favore di un simile esito: in linea di massima il ritorno ad un sistema bipolare. Un sistema bipolare tuttavia, monco su di un duplice versante: quello del centrosinistra e quello rappresentato dall’opposizione all’attuale Governo, ambedue disuniti, lacerati da divergenti strategie, culturalmente disomogenei, attraversati da rivalità e personalismi. Mentre il destra-centro, anch’esso alle prese con divergenze e palesi dissonanze, pure su temi fondamentali dell’agenda programmatica del Governo nazionale, ha saputo presentarsi compatto ed unito, concentrando tutto il proprio potenziale di fuoco elettorale su di una candidatura condivisa, seppure per la fase della pandemia da Covid-19 imputata di inettitudine e di inadeguatezza, persino sospettata di pratiche ai confini della legalità, il centrosinistra in Lombardia non è stato in grado di unificare tutto lo schieramento di opposizione. Ha recuperato sì l’alleanza con il Movimento Cinque Stelle, ma ha scontato l’isolamento in cui ha voluto confinarsi il Terzo Polo, cui non è bastato il supporto della lista Moratti per sottrarsi alla solitudine del perdente. Non semplicemente la mancata sommatoria tra possibili alleati –sotto il profilo dei numeri Fontana sarebbe comunque risultato vincitore avendo superato la soglia del 50%-, ma soprattutto l’incapacità di definire una proposta programmatica unitaria e coinvolgente, prospettata come rimedio a quelli che sono stati i fallimenti più rilevanti della giunta uscente: dalle scelte in campo sanitario a quelle concernenti la tutela dell’ambiente e la promozione di uno sviluppo sostenibile, dalle politiche dei trasporti e delle infrastrutture a quelle connesse alle problematiche della ricerca e dell’innovazione, per citare solo gli ambiti di intervento regionale rispetto ai quali il governo lombardo ha in tutta evidenza palesato un deficit realizzativo, oltre che indirizzi volti a privilegiare interessi privati e di parte.
Quanto ai risultati conseguiti dalle diverse formazioni politiche certamente soddisfatte sono state le ambizioni di successo e primazia di Fratelli d’Italia, che accresce in termini esponenziali i propri consensi sull’onda di una leadership senza rivali come quella di Giorgia Meloni, affermandosi come primo partito con una percentuale superiore al 25%. A sua volta la Lega, cui nelle previsioni veniva attribuita un’ulteriore smentita dopo quella accusata lo scorso 25 settembre, pur restando lontana dal 29, 6% del 2018, ottiene un risultato che, sommato a quello conseguito dalla lista a sostegno del presidente Fontana segnala una ripresa particolarmente sensibile nelle aree periferiche e nelle vallate. Salvini è riuscito a “sfangarla”, come si dice, e a contenere la fuoriuscita di voti in direzione di Fratelli d’Italia e verso Letizia Moratti, nonché a placare il malcontento del “Comitato Nord”, l’area di minoranza che fa riferimento a Umberto Bossi, cui ha offerto il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata a riprova dell’impegno a rilanciare temi lumbard. Fontana peraltro ha agito da traino riuscendo ad affermarsi persino nei territori bergamaschi in cui il Covid-19 ha mietuto un’enorme quantità di vittime, a conferma della compattezza del destra-centro e della declinazione eminentemente politica attribuita al voto. Forza Italia a sua volta riesce a tenere, ma risulta ormai stabilmente ridimensionata al ruolo di minor party della coalizione. Il Pd, senza leader, pur impegnato nel dibattito congressuale che certamente non ha favorito la sua campagna elettorale, lascia intravedere, nonostante l’ennesima perentoria sconfitta, alcuni segnali, per quanto ancora timidi, di rilancio. I risultati ottenuti dal partito mostrano una forte asimmetria, se si considerano gli esiti delle città capoluogo –i casi di Brescia, Milano e Mantova-, molto confortanti, rispetto a quelli delle aree periferiche. Rassicurante è comunque il recupero anche nelle zone extra ZTL dei centri urbani, là dove amministratori di provata capacità ed esperienza, nonché la conoscenza del territorio, consentono di trovare sintonia col sentiment di un elettorato avvilito e sconfortato. La luce in fondo al tunnel ancora non si intravede, ma il disegno dei Cinque Stelle e del Terzo Polo – “l’Opa” lanciata a discapito del Pd come la definisce Enrico Letta – di erodere il partito non è andato a compimento. I primi, ormai partito come tutti gli altri e non più antipartito che lucra sull’antipolitica, subiscono uno smacco che ne ridimensiona categoricamente le velleità, sin quasi alla irrilevanza in consiglio regionale; il secondo può considerarsi il principale sconfitto di questa tornata elettorale, alla luce di un risultato – così lo definisce il segretario lombardo di Azione subito dimessosi – “fallimentare”, soprattutto a Milano, la città simbolo, che lo vede precipitare dal 16% delle politiche al 4%. Il crollo subito gela le ambizioni di guidare dal nord un progetto riformista, di fatto neoliberale, e porta allo scoperto l’inconsistenza di un disegno retto sul presupposto improbabile di un’autosufficienza indisponibile a tessere alleanze. Senza contare che alla fine Letizia Moratti ha denotato scarsa attrattività fuori dal bacino di voti acquisiti da parte del Terzo Polo alle consultazioni politiche. Sinistra e Verdi infine con risultati più che modesti escono persino dai radar degli osservatori, restando incollati a percentuali dalle quali non riescono a sganciarsi. Confinati in uno spazio di minorità, finiscono ridotti ad una presenza puramente testimoniale. Il che comunque solleva un problema non certo irrilevante: quali le ragioni del mancato decollo di una formazione ambientalista in un tempo in cui la questione ecologica e del cambiamento climatico risulta essere cruciale? Il quesito naturalmente riguarda l’intero Paese.