Il papa del Sud del mondo ha compiuto tra il 31 gennaio e il 5 febbraio scorsi il quarto viaggio africano del pontificato, recandosi nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan. Il Sud in cui si è immerso è diverso dalla sua Argentina, ma con essa ha in comune i mali endemici dell’arretratezza e dell’instabilità sociale.
Francesco ha scelto fin dal primo momento di guardare la realtà dalle periferie, geografiche ed esistenziali, e rimane coerente a questa opzione anche nel selezionare i paesi da visitare. C’è chi se ne rammarica, come Ernesto Galli della Loggia, che accusa Bergoglio di aver dimenticato l’Europa, estromettendola dal proprio orizzonte. Credo che ci sia qui un equivoco: non si tratta di porre un continente o una parte del pianeta in primo o in secondo piano; piuttosto è questione di prendere atto, nell’era della globalizzazione, dell’interdipendenza di una parte con tutte le altre. L’Europa non può risollevarsi dalla sua oggettiva decadenza (vedi, ad esempio, il problema demografico) se non interagendo con mondi diversi eppure ad essa vicini, che guardano ancora al Vecchio Continente come a un faro di riferimento nella perigliosa navigazione dei nostri tempi. Di ciò dovrebbe essere cosciente soprattutto l’Italia, naturalmente protesa verso la sponda meridionale del Mediterraneo
In volo alla volta del Congo, mentre il suo aereo sorvolava il Sahara, il papa ha invitato a un momento di raccoglimento per ricordare i tanti migranti africani che attraversano quel deserto verso nord, e tentano la traversata del Mare Nostrum per approdare sulle nostre coste. Molti perdono la vita, altri rimangono vittime della tratta di esseri umani. Perché lo fanno?
La risposta è facile trovarla a Kinshasa, prima tappa del viaggio apostolico. Questa città, un tempo considerata tra le più belle dell’Africa subsahariana è oggi un formicaio di dodici milioni di persone, gran parte delle quali vivono in bidonville senza acqua corrente né fogne. In un contesto così degradato, i giovani – che sono la stragrande maggioranza dei cento otto milioni di abitanti della RDC, dove l’età media non arriva ai diciannove anni – tendono a cercare fuori dal proprio paese una speranza per il loro avvenire.
Grandi sono le responsabilità internazionali. Al vecchio colonialismo si è sostituita una mentalità rapace che continua, con altre forme ma la medesima sostanza, a pensare che l’Africa sia un frutto da spremere e buttar via. «Giù le mani dall’Africa!», ha esclamato Francesco. «L’Africa non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare».
Anche i conflitti che segnano tante zone di questo continente sono spesso indotti da chi ha interesse a mantenere intere nazioni in condizioni di fragilità per depredarne le risorse naturali. La violenza è alimentata dal commercio internazionale di armi, bollato dal papa come «la peggiore peste» dell’umanità. La situazione più critica è nell’est del Congo, dove operano un centinaio di gruppi armati che mescolano criminalità comune a terrorismo. Un’area fuori controllo, su cui pesa il genocidio tra Hutu e Tutsi degli Anni Novanta, con il Ruanda impegnato in una politica espansionistica e sullo sfondo gli interessi di multinazionali e potenze straniere. Il papa ha ricordato, tra l’altro, il sacrificio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere di scorta e dell’autista uccisi nel 2021 in Kivu. I sopravvissuti alla violenza, soprattutto donne e bambini, gli hanno portato le loro testimonianze, deponendo ai piedi del crocefisso gli strumenti usati dai propri aguzzini.
Le parole di denuncia di Francesco sono state ascoltate dalla leadership di uno stato grande otto volte l’Italia e di enormi potenzialità, ma che dopo l’indipendenza dal Belgio (1960) non ha mai goduto di un periodo di stabilità. L’attuale presidente Félix Tshisekedi, che pure ha accolto il pontefice con grande cordialità, è stato accusato dalla stessa Chiesa cattolica di aver vinto con i brogli le elezioni del 2018.
Il papa ha proseguito poi la sua missione a Giuba, la capitale del Sud Sudan posta sulle rive del Nilo Bianco, il grande fiume che attraversa questa giovanissima nazione, resasi indipendente nel 2011, ma subito caduta in una guerra intestina tra le etnie Dinka e Nuer che ha provocato finora quattrocentomila mila morti e quattro milioni di sfollati. Si è trattato in questo caso di un pellegrinaggio ecumenico di pace perché insieme a Francesco c’erano il primate anglicano Justin Welby, e il moderatore presbiteriano della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields. Un grande segno di unità fra cristiani, che in passato il proselitismo aveva spesso messo in competizione. Aver parlato a una sola voce ha rafforzato il messaggio e costretto le parti in lotta a promettere la ripresa dei colloqui per porre fine ai combattimenti. Già nel 2019 il papa, ricevendo i leader sudsudanesi in Vaticano, si era inginocchiato ai loro piedi per implorare la pace. La speranza è che stavolta alle parole seguano i fatti.
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