Inserito nel Codice degli Appalti come strumento utile alla partecipazione (effettiva e concreta) del cittadino, ora si pensa di limitarne le potenzialità.
Appello della Società civile al Parlamento.
Rafforzare la partecipazione della società civile alla gestione della Cosa Pubblica, non è un semplice slogan o un auspicio degli incalliti teorici della democrazia aperta e condivisa, ma un vero obiettivo contenuto nell’Azione 3 del 5° Piano d’Azione dell’Open Government Partnership «un’iniziativa multilaterale di Governi per la promozione di politiche innovative che rendano le istituzioni pubbliche più aperte e responsabili, realizzando la trasparenza della Pubblica Amministrazione, la lotta alla corruzione e i principi della democrazia partecipata» (si v. www.funzionepubblica.gov.it/attivita-internazionali/ogp). Progetto serio e ambizioso, eppure nel nostro Paese siamo ancora all’alba dell’effettivo uso di questi strumenti. C’è chi non ne vede l’utilità, anzi li teme, perché ha paura di perdere quote di potere. E c’è chi invece si muove e cerca di fare in modo che l’idea trovi (almeno) terreno fertile per crescere.
Lo fanno circa 50 associazioni del Terzo settore, piccole e grandi, che sulla base di una iniziativa promossa da Act!onaid, Cittadinanzattiva, Legambiente e SlowFood Italia hanno dato vita all’Osservatorio Civico sul PNRR (www.osservatoriocivicopnrr.it), e chiede, in prima battuta, di salvare il “Dibattito pubblico” per garantire la partecipazione di tutti e tutte.
Il 25 gennaio hanno incontrato le ottave Commissioni Ambiente di Camera e Senato e hanno consegnato una memoria scritta «volta a richiedere modifiche urgenti al nuovo Schema di riforma del Codice dei contratti pubblici che le Commissioni, a seguito di specifica delega e dopo una serie di passaggi che hanno coinvolto il Consiglio di Stato e il Governo, stanno ora esaminando per apportare, nel caso, le dovute correzioni». Dicono, in sostanza, che già il meccanismo del Dibattito Pubblico non godeva di particolari attenzioni nel nostro ordinamento. Ora, le modifiche paventate lo renderebbero ancora più difficile. E quindi chiedono con forza (ma l’eco mediatica è debole…) alcune semplici cose: « ripristinare la Commissione Nazionale Dibattito Pubblico, organismo autorevole e indipendente, indispensabile per supportare e monitorare il corretto svolgimento dei Dibattiti Pubblici; introdurre le necessarie modifiche affinché il DP torni ad essere realmente un percorso di informazione e coinvolgimento trasparente, inclusivo, aperto a tutte le persone interessate, da svolgersi con tempi e modalità adeguati ad approfondire tutte le questioni e attivare un confronto dialogico e argomentato tra i diversi punti di vista». E sottolineano come la nuova formulazione dell’art. 40 del Codice dei Contratti Pubblici preveda, invece, «un deciso depotenziamento dell’Istituto del Dibattito Pubblico, trasformato da innovativo dispositivo di problem setting e progettazione attenta ai bisogni dei territori, a mero adempimento burocratico per la raccolta di osservazioni online da svolgersi in 60 giorni e aperta solo a “portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, che, in ragione degli scopi statutari, sono interessati dall’intervento”».
Sarebbe un peccato, così non va. Sia chiaro, ribadiscono, che non si tratta del frutto di una pura teoria figlia di un pensiero illuso, ma non applicabile allo stato dei fatti. Il nuovo Codice rientra, infatti, nelle cosiddette riforme abilitanti previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), idonee a garantire una più efficace attuazione del Piano e prevista all’interno del delicato capitolo delle “semplificazioni”, con lo specifico obiettivo di realizzazione le infrastrutture e il rilancio dell’attività edilizia. È in questo quadro, sottolineano, che «la Legge Delega n. 78/2022 prevede, con specifico riferimento al Dibattito Pubblico, che i decreti legislativi contenenti il futuro Codice devono essere adottati con la finalità di rendere le relative scelte maggiormente rispondenti ai fabbisogni delle comunità e di rendere meno conflittuali le procedure decisionali. L’attuale proposta di Codice risulta, però, essere in controtendenza con i principi e i criteri direttivi fissati dalla legge di delegazione.
Nella loro attività di formazione e di promozione del tema fondante per la vita della Comunità, l’Associazione italiana per la Partecipazione pubblica (www.aip2italia.org/) evidenzia i benefici che questa modalità (coraggiosa e innovativa) di impostare il rapporto tra istituzioni e cittadini può apportare: «Il DP è uno strumento informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, su progetti o interventi, che ha grandi potenzialità: a) garantisce l’efficacia e la qualità delle decisioni pubbliche, b) migliora la progettazione delle opere; c) crea occasione di confronto con i territori in una fase in cui è ancora possibile una composizione tra gli interessi in conflitto e la condivisione (e legittimazione) delle scelte; d) evita possibili contenziosi in sede giurisdizionale e quindi, incidendo poco sui tempi di progettazione, velocizza e semplifica la realizzazione dell’opera».
Eppure, anche se da molto tempo «esperti e addetti ai lavori richiedessero a gran voce una riforma del codice, le cui procedure non hanno mai garantito un fluido ed efficace iter nella concessione e implementazione delle gare, lo schema inviato il 9 gennaio alle Camere, al di là di ogni altra considerazione, rappresenta un notevole passo indietro in tema di partecipazione delle cittadine e dei cittadini nella materia degli appalti».
Insomma: sarebbe un evidente, ulteriore colpo all’attuale, già fragile per tanti altri motivi, apprezzamento del valore attuale e cogente della democrazia. E non ce n’è bisogno.
Foto di Shelagh Murphy su Unsplash