Forse non sono ancora maturi i tempi per una valutazione pacata e meno “calda” dell’apporto che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha fornito non soltanto all’istituzione che lo ha annoverato tra i suoi figli più eminenti, ma al dibattito culturale e scientifico, anche quello non strettamente teologico.

Sembra tuttavia possibile già avanzare alcune ipotesi ricostruttive di una linea intellettuale che è stata capace di fare i conti con le trasformazioni che hanno condotto alla società post-secolare, e lo è stata in quanto sin dall’inizio attenta alle correlazioni tra fede e ragione, religione e scienza: correlazioni che l’enciclica postuma Lumen fidei esprime con speciale nettezza, come si trae da uno dei suoi passaggi  più conosciuti (n. 34), non casualmente ripreso, due anni dopo, da papa Francesco nella Laudato si (n. 199, nt. 16): «La luce della fede, in quanto unita alla verità dell’amore, non è aliena al mondo materiale, perché l’amore si vive sempre in corpo e anima; la luce della fede è luce incarnata, che procede dalla vita luminosa di Gesù (…) Lo sguardo della scienza riceve così un beneficio dalla fede: questa invita lo scienziato a rimanere aperto alla realtà, in tutta la sua ricchezza inesauribile. La fede risveglia il senso critico, in quanto impedisce alla ricerca di essere soddisfatta nelle sue formule e la aiuta a capire che la natura è sempre più grande. Invitando alla meraviglia davanti al mistero del creato, la fede allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude agli occhi della scienza».

Se questo è il punto di partenza, qual è il punto di arrivo?

Proprio nel modo con cui Joseph Ratzinger ha risposto a questa domanda risiede, a parere di chi scrive, uno dei nuclei di maggiore interesse della sua riflessione. L’economia di questo mio intervento suggerisce, al fine di dimostrare l’assunto, di ricorrere a un’esempio.

Traggo l’esempio da un avvenimento che ha avuto una risonanza mediatica anche al di fuori della cerchia ristretta degli studiosi, tanto da essere oggetto di pubblicazioni in diverse lingue e da continuare a essere ricordato come emblematico: alludo al dialogo, svolto a Monaco di Baviera il 19 gennaio 2004, tra il cardinale Joseph Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas sul tema I fondamenti morali e prepolitici dello Stato liberale.

Il dialogo prendeva espressamente spunto da un celebre dictum, o teorema, proposto a metà degli anni Sessanta del secolo scorso dal costituzionalista assiano Ernst-Wolfgang Böckenförde: «Lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé [ndr: cioè senza venire meno ai suoi caratteri intrinseci] non può garantire». Il suo autore chiarì il punto attraverso la seguente domanda: «Di cosa vive lo Stato, dove trova la forza che lo sostiene e garantisce l’omogeneità e le intrinseche virtù regolative della libertà, delle quali ha bisogno da quando la forza vincolante tratta dalla religione non è né può più essere essenziale per esso?». Su queste basi, il dialogo si incentrò sulle fonti di legittimazione degli attuali ordinamenti costituzionali e sul ruolo pubblico delle religioni in contesti sociali secolarizzati. L’intervento di Ratzinger viene generalmente e correttamente ricordato soprattutto sotto tre profili.

In primo luogo, per il modo con cui viene sintetizzato lo stato della questione, a partire dalla perspicua delineazione dei caratteri e del compito della politica («sottoporre il potere al controllo della legge, in modo da garantirne un uso assennato») e dalla conseguente importanza che venga superata la diffidenza nei confronti della legge e dei suoi ordinamenti («solo così, infatti, si esclude l’arbitrio e la libertà può essere vissuta come libertà condivisa dalla comunità«), cui si aggiunge la consapevolezza che il principio di maggioranza, il quale, insieme a quello di rappresentanza, struttura «la forma di ordinamento politico più adeguata», cioè la democrazia, non può escludere che una maggioranza opprima con norme persecutorie una minoranza e che esso pertanto «lascia sempre aperta la questione dei fondamenti etici della legge» Ciò ha indotto l’età moderna a formulare un insieme di «elementi normativi nelle differenti dichiarazioni dei diritti», sottraendoli al gioco delle maggioranze, ma la discussione verte proprio sull’evidenza interna di tali valori e sul loro fondamento.

In secondo luogo, per la lucidità con cui viene analizzata la questione del diritto naturale, cioè della figura argomentativa con cui la chiesa cattolica «richiama alla ragione comune nel dialogo con le società laiche e con le altre comunità di fede e con cui ricerca i fondamenti di una comprensione attraverso i principi etici del diritto in una società laica e pluralista». Per Joseph Ratzinger tale strumento è («purtroppo»…) diventato inefficace, in quanto la vittoria della teoria evoluzionista ha comportato il superamento di una «idea di natura in cui natura e ragione si compenetrano, la natura stessa è razionale»: oggi prevale nettamente l’idea che «la natura come tale non sarebbe razionale, anche se in essa v’è un atteggiamento razionale: questa è la diagnosi che per noi ne deriva e che oggi appare per lo più inoppugnabile». Circa l’ultimo elemento del diritto naturale che sembra essere sopravvissuto alla crisi della nozione di natura, cioè i diritti umani, egli sottolinea che «essi non sono comprensibili senza presupporre che l’uomo in quanto tale, semplicemente per la sua appartenenza alla specie umana, sia soggetto di diritti, che il suo essere stesso comporti valori e norme che devono essere individuati, ma non inventati». E in proposito il cardinale prospetta che la teoria dei diritti umani oggi dovrebbe forse «essere integrata da una dottrina dei doveri umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe però aiutare a rinnovare la questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e dunque un diritto razionale, per l’uomo e la sua esistenza nel mondo. Un simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato interculturalmente. Per i cristiani ciò avrebbe a che fare con la creazione e con il Creatore. Nel mondo indiano corrisponderebbe al concetto di “Dharma”, la legge interna all’essere, nella tradizione cinese all’idea degli ordinamenti celesti».

In terzo luogo, per la constatazione circa l’importanza cruciale dell’interculturalità come dimensione inevitabile della discussione sulle questioni fondamentali dell’essere umano, con la connessa non universalità di fatto di entrambe le principali culture dell’occidente, quella della fede cristiana e quella della razionalità laica (ancorché «entrambe esercitino – ciascuna a suo modo – un influsso su tutto il mondo e su tutte le culture», resta «un dato di fatto che la nostra razionalità secolare, per quanto illumini la nostra ragione di formazione occidentale, non è comprensiva di ogni ragione che, in quanto razionalità, nella sua ricerca di rendersi evidente urta contro dei limiti»). Se dunque «la cosiddetta etica globale resta un’astrazione» (e il riferimento, garbato ma fermo, è evidentemente al suo antico condiscepolo Hans Küng), l’unica strada sotto il profilo pratico è quella – e sul punto Ratzinger manifesta un ampio accordo su quanto aveva esposto Habermas – della disponibilità ad apprendere e della autolimitazione da entrambe le parti, per cui abbiamo «necessità di un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente», all’interno di un processo universale e interculturale di chiarificazione, «in cui infine le norme e i valori essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare nuovo potere di illuminare, cosicché ciò che tiene unito il mondo possa nuovamente conseguire un potere efficace nell’umanità». Come si vede, al termine del ragionamento si torna idealmente al punto di partenza della Lumen fidei.

Se il contenuto del dialogo già consente di cogliere i profili innovativi dell’apporto di Joseph Ratzinger, ancora più interessante (non sempre evidenziato a sufficienza dai pur tanti commentatori) è la sua contestualizzazione.

Nel 2004, cioè quando si svolge il dialogo, era già nota la posizione di Habermas, maturata soprattutto a seguito dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle, rivolta a “riabilitare” l’apporto della religione nella sfera pubblica, così da non «privare la società secolare di importanti risorse nella fondazione di senso» (in Fede e sapere, 2001). Sarebbe quindi stato relativamente facile per il cardinale sottolineare le derive secolariste del pensiero moderno e riproporre il discorso cattolico per dir così tradizionale (magari indugiando sulla vanità delle pretese, avanzate nell’ambito della cosiddetta tardo-secolarizzazione, di confinare la religione ai margini della vita reale e della vita quotidiana), tanto più che egli stesso aveva già avuto modo di confrontarsi pubblicamente con il dictum di Böckenförde vent’anni prima, sempre a Monaco, in una conferenza dove aveva rimarcato l’imprescindibilità del cristianesimo al fine di orientare la democrazia pluralista. Egli, per contro, sceglie, con una grandissima onestà intellettuale (e pur non astenendosi da qualche, per dir così, nostalgia: quel “purtroppo”…), da un lato, di condividere l’approccio del mutuo apprendimento, dunque andando ben oltre alla tolleranza formale nei confronti delle altre fedi religiose e del pensiero cosiddetto laico, giungendo anche a indicare una strada inedita sino a quel momento, cioè l’integrazione della dottrina dei diritti umani con quella dei doveri umani e dei limiti umani, sottolineando, come si è visto sopra, che un simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato interculturalmente, e, dall’altro, di accanirsi sulla stanchezza della razionalità, pure evocata da Habermas con riferimento al clima culturale della Repubblica di Weimar.

L’impostazione di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI permette anche di lumeggiare meglio la problematica della laicità. In una società multiculturale e multireligiosa, rileva la necessaria “neutralità” o meglio alterità dei pubblici poteri rispetto alla religione, e pertanto la laicità dello Stato-persona diviene un valore costituzionale storicizzato. Ma c’è anche una laicità dello Stato-comunità (la distinzione tra le due laicità trova fondamento, in Italia, nella notissima sentenza Casavola della Corte costituzionale n. 203 del 1989), che si manifesta proprio in quei percorsi di mutuo apprendimento e che consente, anche per la laicità, come per la secolarizzazione rispetto al secolarismo, di distinguerla dal laicismo, inteso come tendenza volta a sottrarre la sfera pubblica da qualsiasi influsso religioso.

Nel più volte menzionato dialogo di Monaco, anche in forza dell’impostazione onesta e aperta del cardinale, Habermas giunge non soltanto a condividere l’idea che la presenza del linguaggio religioso nello spazio pubblico significhi rafforzamento della democrazia, ma altresì ad affermare, dal punto di vista di una cultura politica liberale e con echi che ritroveremo in Charles Taylor, che essa «può addirittura aspettarsi dai cittadini laicizzati che partecipino ad iniziative volte a tradurre contributi rilevanti dal linguaggio religioso in una lingua pubblicamente accessibile», con l’implicita riserva che tale linguaggio debba avere la robustezza propria dell’agire comunicativo e dell’argomentazione. Ma ciò non è estraneo alla riflessione del cardinale-teologo, per il quale rileva (e l’esperienza del pontificato lo confermerà) non il segno sbandierato, ma il significato di quel segno, non il crocifisso, ma il significato del crocifisso, cioè la riflessione teologico-culturale su ciò a cui il segno rimanda.

Oggi, in presenza di tendenze nella vita pubblica volte a enfatizzare il segno piuttosto che il suo significato, il richiamo all’interculturalità di Joseph Ratzinger aiuta a mantenere salda questa distinzione e al tempo stesso a conservare la forza dell’illuminazione che la fede apporta alla ragione.

Concludo.

Il richiamo di alcuni testi di Joseph Ratzinger, oltre a costituire uno spunto per futuri approfondimenti, segna e illustra quella che a buon titolo è stata chiamata la continuità tra Benedetto e Francesco: come anni fa sottolineò Fulvio De Giorgi, è la continuità tra il profilo teoretico e il profilo sociale-pratico (o, da un altro punto di vista, per dirla con il lessico della migliore scolastica, tra l’agire interiore e l’operare esterno). Tale continuità non significa identità di approccio teologico e meno che mai di orientamenti e stili pastorali, quanto piuttosto complementarità metodologica e sostanziale: ferma restando la necessità di immergere la caritas nella veritas, quello che la teologia di papa Francesco sembra suggerire, come la collana promosso da Roberto Repole ha mostrato, è di fare emergere la veritas nella caritas e nella misericordia. Complementarità che ritroviamo sia nelle analisi di Benedetto XVI sul relativismo teorico, magistralmente scolpito nella sua forza antievangelica e disumanizzante, sia nell’insistenza della critica di Francesco al relativismo pratico (si vedano soprattutto Evangelii Gaudium, n. 80; Laudato si’, nn. 122-123), non senza sottolineare che un tale relativismo pratico può insinuarsi anche in quei cristiani la cui dottrina è inoppugnabile e può riguardare «persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni dottrinali e spirituali» (Evangelii gaudium, n. 80). Viene alla mente, in proposito, un’osservazione di Böckenförde del 1967 a proposito dello Stato cristiano della Restaurazione a valle del Trattato di Vienna, descritto come una «scenografia per affari quanto mai mondani, montata per consolidare posizioni di potere e sanzionare rapporti politico-sociali legati all’attualità, per conservarli di fronte a interventi innovativi» (La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione, alla fine del § II).

Alla fine, il problema più acuto è sempre il seguente: come elevare il livello e il tono della discussione pubblica affinché si possa praticare quel mutuo apprendimento che permette ai valori-principi costituzionali di animare la città secolare?

Ho cercato di mostrare che, nella risposta a questa domanda, il pensiero e l’opera di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI possono apportare utili apporti.

 

 

  • Renato Balduzzi

    Professore ordinario di diritto costituzionale nell'Università Cattolica, già presidente nazionale Meic, ministro della salute, deputato e membro del Csm.