Il dibattito pubblico sulla giustizia nel nostro paese è sempre stato terreno di scontro politico e forte polarizzazione, ma appare attualmente ulteriormente viziato da un paio di condizioni di contesto che riflettono, almeno in parte, alcuni limiti più generali del nostro dibattito politico.

Alludo alla presenza di un ministro dalla personalità particolarmente debordante, che per molti versi non sembra aver ancora maturato la consapevolezza del passaggio di ruolo da commentatore a ministro della Repubblica, e alla evidente e interessata rimozione dalla discussione del rilevante compendio di riforme approvate dal Governo Draghi.

Sotto il primo profilo, il ministro Nordio ha fatto il suo ingresso sulla scena politica accarezzato da commenti assai elogiativi, a volte perfino agiografici, che appaiono averne solleticato la vanità, con un profluvio di interviste, dichiarazioni di intenti, interventi parlamentari dai contenuti spesso non dissimili dalle riflessioni che da molti anni affidava agli editoriali sui giornali.

Modalità di intervento decisamente discutibili, poco consone alle responsabilità di un ministro, che non può permettersi toni che rischiano di produrre guasti e fratture in un settore di così particolare delicatezza come la giustizia.

Questa postura ha peraltro già creato evidenti fibrillazioni dentro l’eterogenea maggioranza di governo, che sul tema presenta profili e tendenze chiaramente divaricanti, essendo formata da partiti e movimenti che si muovono su terreni di forte impronta identitaria e propagandistica ma che guardano in direzioni opposte, da Forza Italia, cui ammicca anche il Terzo Polo, che da tempo strumentalizza la bandiera del garantismo per giustificare qualunque intervento che limiti poteri, prerogative e indipendenza della magistratura, a Lega e Fratelli d’Italia che, al contrario, sono i custodi della destra tradizionale “legge e ordine”, di stampo marcatamente giustizialista.

In tutto ciò, e per effetto di un ministro che ha deciso di continuare a interpretare, anche da guardasigilli, il ruolo di fustigatore dei mali della magistratura e di grande interprete del garantismo all’italiana, si assiste al progressivo e regressivo arretramento del dibattito sulla giustizia ad uno scontro tra visioni antagoniste e radicali, destinata a provocare divisioni e fratture anche tra le componenti della giurisdizione.

E forse non per caso appare invece totalmente rimossa dalla discussione la stagione appena archiviata, quella del Governo Draghi e della ministra Cartabia, che grazie a un concorso di condizioni irripetibili ha consentito di amministrare intelligentemente le spinte divaricanti e alternative tra visioni diverse, e di creare le condizioni per l’approvazione di tre grandi riforme, sulla giustizia penale, sulla giustizia civile e sull’ordinamento giudiziario, che rappresentano il più impegnativo e coraggioso tentativo di riforma organica della giustizia italiana da molti anni a questa parte.

Riforme approvate con un consenso larghissimo grazie all’autorevolezza del governo, alla maggioranza di unità nazionale, e al vincolo esterno dell’Unione Europea che ha subordinato l’erogazione dei fondi del Pnrr ad obiettivi particolarmente ambiziosi in termini di riduzione dei tempi di definizione dei processi, vero tallone d’achille del nostro paese.

Quelle riforme hanno due grandi pregi: essendo state approvate da un larghissimo fronte parlamentare dovrebbero essere in grado di resistere nel tempo, essere cioè meno soggette alle paturnie delle maggioranze di turno, e hanno l’ambizione di disegnare una nuova architettura complessiva del funzionamento della giustizia che le ridia efficienza e qualità nel rispetto delle garanzie e dei diritti.

Ed è forse proprio quest’ultimo aspetto quello più rilevante, perché le riforme Cartabia, grazie a quelle condizioni particolari nelle quali sono maturate, sono riuscite finalmente a mettere al centro degli obiettivi della politica le questioni serie, e non quelle ideologiche, vale a dire l’efficienza e i tempi di durata dei processi, e hanno trovato quell’equilibrio necessario, doveroso e infine apprezzato da tutte le forze politiche tra tutele, diritti e garanzie che costituisce la sfida più difficile e insidiosa per chiunque si proponga di intervenire sulla giustizia.

La rimozione di quella stagione e dei suoi risultati appare così particolarmente rischiosa e preoccupante, perché sembra indicare una straordinaria immaturità della politica italiana, incapace non solo di tracciare strade dritte e di percorrerle fino in fondo, ma perfino di riconoscere i propri meriti, i propri risultati, tesa piuttosto a disfare per rifare perché totalmente asservita alle esigenze di consenso di breve periodo.

In ciò purtroppo condizionata anche da uno sguardo mediatico troppo spesso superficiale e interessato, inadeguato a dare conto della complessità dei problemi e dei faticosi risultati purtuttavia conseguiti.

Allora io credo che la prima cosa che oggi occorre mettere in campo è una difesa intelligente, ferma e argomentata delle riforme già approvate, che vanno attuate, vanno attentamente monitorate, vanno messe alla prova senza metterle in discussione prima ancora che abbiano prodotto effetti, come si conviene ad una politica seria, responsabile e degna di una grande paese democratico come l’Italia.

Ovviamente ciò non significa non intervenire laddove necessario per correggere errori e mancanze che sono inevitabili, ma proseguire all’insegna del riformismo possibile e concreto che ha caratterizzato l’ultimo scorcio della scorsa legislatura.

 

Non c’è peraltro da essere molto ottimisti sul punto, se non per il fatto che, venute meno sia l’autorevolezza del governo Draghi sia la maggioranza di larghe intese, è però rimasto intatto con tutta la sua forza il vincolo posto dall’unione europea, che ha già valutato adeguate le riforme approvate, e che non tollererebbe interventi in grado di scardinarne i principi.

In ogni caso i segnali della stagione incipiente, caratterizzata da un approccio della maggioranza di destra nuovamente ideologico, strumentale e potenzialmente dannoso per la giustizia del nostro paese, appaiono evidenti e non rassicuranti.

Faccio un rapido elenco.

Nuovi reati pesanti contro particolari categorie sociali distanti dalla destra, come i giovani che partecipano ai rave party illegali, e insieme, contradditoriamente, un ammorbidimento della repressione penale per i reati contro la pubblica amministrazione, che invece lancia segnali ambigui sulla lotta alla corruzione.

La critica serrata all’uso delle intercettazioni che evoca una imminente riforma, e che confonde piani diversi come il loro utilizzo come strumento d’indagine, che non può essere eccessivamente limitato, e la loro pubblicazione sui giornali, che spesso è invece ingiustificata.

L’eterno ritorno all’idea della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, che viene presentata come la soluzione ai problemi della giustizia con un’enfasi a mio modo di vedere largamente malriposta.

Tutte questioni che vengono agitate come bandierine sull’altare della propaganda politica, perché hanno il vantaggio di produrre forte dibattito e di conseguenza garantire riconoscibilità politica senza impegnare risorse, a costo zero, ma che rischiano di produrre grandi guasti.

Si approssima dunque per la giustizia italiana una stagione complessa, nella quale l’opposizione che per sua natura è vocata alla cultura di governo e al riformismo serio e rigoroso sarà chiamata a svolgere un ruolo impegnativo e rilevante per evitare sbandate e deragliamenti.

(Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash)

  • Alfredo Bazoli

    Alfredo Bazoli, avvocato, 53 anni, senatore del Partito democratico, capogruppo in commissione giustizia e in giunta delle autorizzazioni.