In questi giorni segnati dalla morte di Benedetto XVI per ricordarlo ho scelto di meditare il Suo Testamento spirituale redatto il 29 agosto 2006. Mi è parso di potervi ritrovare il cuore del suo magistero. Guardando ai lunghi anni della sua esistenza non parla di sé come ‘teologo’ – titolo assolutamente pertinente – ma si limita a dire che per sessant’anni durante i quali “ho accompagnato il cammino della teologia…ho visto e vedo la ragionevolezza della fede”.

A tutti lascia una consegna: “Rimanete saldi nella fede”. Quella fede che, riconosce con umiltà, “mi ha guidato attraverso vari momenti di confusione, rialzandomi sempre ogni volta che cominciavo a scivolare…anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la mia salvezza”. Dopo questo esordio, quasi una ‘confessione’, il Testamento assume la forma, davvero singolare per un testo che vuol essere estremo congedo, di una brevissima lezione sul buon uso della ragione.  Quando era stato eletto arcivescovo di Monaco in Baviera aveva scelto come motto: “Cooperatores veritatis”, cooperatori della verità.

“Spesso sembra che scienze naturali e ricerca storica siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali fin da tempi lontani e ho potuto costatare come al contrario siano svanite apparenti certezze contro la fede…dimostrandosi essere non scienza”. Ma accanto ai limiti della scienza Ratzinger riconosce quelli della fede e aggiunge “è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni e dunque la sua specificità”.

La lettura del Testamento di Joseph Ratzinger mi ha riportato alla memoria un episodio che sollevò violente critiche nei confronti del Pontefice.

Nella Lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI nell’Aula Magna dell’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006, dopo un esordio che evocava i suoi anni giovanili quando era docente universitario, il Papa menziona un giudizio formulato dall’Imperatore bizantino Manuele II Paleologo in dialogo con un colto Persiano circa Cristianesimo e Islam e la verità di entrambi. Tema è la jihad ovvero la guerra santa. Dice Ratzinger: “In modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile”, l’Imperatore dice al suo interlocutore: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada, la fede che egli predicava”. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. Da quel lontano episodio che appunto Benedetto XVI depreca spiegando successivamente il senso di quella sciagurata citazione, il Papa ricava una limpida affermazione: Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.

Nella Lectio di Ratisbona il Papa sottolinea con forza il ruolo della ragione nel cammino verso Dio. Prendendo le distanze da ogni forma di uso della forza per diffondere la fede afferma: “La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi, quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno delle capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia…Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte”. Se questa ultima affermazione ci trova tutti concordi, forse la precedente affermazione – condurre alla fede grazie al ben parlare e al corretto ragionare – non riscuote adesione unanime. Siamo infatti più disposti a riconoscere nella contagiosa testimonianza dell’amore e nella dedizione incondizionata la via maestra verso la fede. Davvero prezioso in tempi di fanatismi, il richiamo del Papa ad un “corretto ragionare”.

Sempre nella Lectio papa Benedetto illustra come la ragione sia indispensabile per l’approfondimento della fede. In quanto la filosofia è un interrogare integrale, che mette in discussione ogni presupposto, è preparazione indispensabile per liberare il campo della riflessione teologica da ogni pregiudizio, da ogni indebita precomprensione limitativa. Certo, la filosofia non conduce necessariamente alla fede, che rimane una scelta libera, la responsabile risposta ad un dono dall’Alto, ma permette di entrare dentro l’orizzonte della ragionevolezza e quindi di evitare affermazioni arbitrarie e ingannevoli.

Solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo, afferma papa Benedetto, potremo evitare tutte le minacce, che emergono dalle grandiose possibilità offerte all’uomo dalla scienza moderna.

“L’occidente da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente… È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori”.

Un tema questo – i rapporti fra ragione e fede – che papa Benedetto riprenderà nella sua Enciclica, Deus caritas est.

“Senz’altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente – un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell’ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa.

Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato” (n.28).

Questa insistenza sul ruolo della ragione scaturisce dalla diagnosi che più volte il Papa ha compiuto del nostro tempo indicando nel relativismo la malattia mortale della nostra cultura.

Restituire alla ragione la capacità di conoscere non solo le più varie opinioni ma di muoversi nell’orizzonte della verità è, secondo papa Ratzinger, la condizione per un cammino di fede non istintivo, non emotivo, ma pienamente umano e per questo aperto anche a ciò che supera l’uomo.

 Una razionalità più comprensiva

Vorrei riprendere questo insistente appello alla ragione tanto caro a papa Benedetto nei termini di una razionalità più ampia, comprensiva che si interroghi sulla qualità o validità dei fini perseguiti non solo sull’efficienza dei mezzi impiegati. Le scienze, la razionalità messa in atto dai pianificatori sociali sono scienze che vertono sui mezzi, sono scienze strumentali. Anzi, non solo il tipo di scienza che è alla base della previsione economica, sociale è neutra rispetto al problema dei fini, ma anzi dipende da una intelligenza che si propone l’eliminazione del problema dei fini. Voglio dire con questo che l’intelligenza calcolatrice è una intelligenza essenzialmente oggettiva, per la quale non si danno che fatti osservabili, oggetti sottoposti a previsione e calcolo. Per conseguenza resta il problema dell’orientamento complessivo, il problema delle scelte fondamentali e infine il grande problema del senso da conferire alla propria vita e all’evoluzione dell’umanità. Possiamo avere una società perfettamente razionale e che non ha senso. La razionalità consiste, in questo caso, nel fare delle ipotesi, ricavare delle conseguenze, ma non consiste necessariamente nel darsi dei fini. Siamo alla ricerca di una razionalità più comprensiva che conferisca senso ai mezzi di cui disponiamo. Oggi la nostra epoca sta vivendo una fortissima transizione culturale, che si può esprimere come uno scontro frontale tra due logiche. La prima logica ha come orizzonte un modello tecnicista dello sviluppo e del lavoro, visti solo nell’ottica quantitativa dell’avere, dell’accumulazione, della produzione. La seconda è quella che accende nuovi desideri e bisogni nel ‘cuore’ dell’uomo, respira con le nuove esigenze umane, prodotte dalle migliorate condizioni di vita. Il senso ultimo della scienza e dello sviluppo non sembra essere contenuto all’interno della scienza e dello sviluppo. Una crescita di tecnologia, sia pure illimitata, non è per sé stessa sufficiente a fronteggiare autenticamente i problemi umani.

La ragione è componente essenziale della natura umana. Essa, però, non si esprime solo nella forma della ragione strumentale, calcolante e in tal senso ‘scientifica’: quella cioè che ricerca i mezzi migliori per realizzare qualche fine. È anche, e soprattutto, ragione valutante che si interroga sui fini migliori, sul valore degli interessi da perseguire, sulla ‘qualità’ e quindi, sul senso della vita umana.

Alla luce di questa riflessione possiamo dire che, contrariamente ad una opinione corrente, in una società nella quale intervengono il calcolo e la previsione, c’è più ampio spazio per la decisione, la scelta consapevole, rispetto ad una società abbandonata al caso. Potremmo dunque dire che più una società è sottoposta alla previsione, più essa offre l’occasione di fare scelte libere e responsabili, e quindi scelte di gratuità, cariche di grande significato morale. Ma se c’è oggi più spazio per la scelta, c’è di conseguenza più spazio per un progetto nobile e ambizioso, a servizio di una visione dell’uomo non ristretta e limitata ai soli bisogni economici, ma aperta al bene totale e perenne del genere umano. Ecco il punto di inserimento di una responsabilità etica: a proposito delle grandi scelte che presiedono alle nostre opzioni entro una società del calcolo e della previsione. Tali scelte richiedono un grande senso di responsabilità e una misura non comune di afflato etico e spirituale.

Fede e ragione, vangelo e storia

La lettura del Testamento di Benedetto XVI mi sembra suggerisca alcune indicazioni circa il nostro rapporto di credenti nel tempo e nella storia.

L’incontro tra Vangelo e storia-cultura, può essere declinato secondo modalità diverse che tento di raccogliere attraverso tre parole dell’evangelista Giovanni:

  1. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio…non per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato” (Gv 3, 16-17)
  2. “Voi volete uccidermi perché la mia parola non penetra in voi” (Gv 8, 37)
  3. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Apoc 21,5).

In altri termini: la Parola è incarnata nella storia; la Parola è rifiutata dalla storia; la Parola è principio di una storia nuova.

Possiamo chiamare il primo stile, stile di dialogo. È un tema questo caro ai recenti Pontefici nel solco della grande lezione conciliare. La Costituzione Gaudium et Spes illustra questa reciprocità: non è solo la cultura e la storia ad aver bisogno della Parola, ma a sua volta la fede ha bisogno della cultura e la ragione di tale bisogno sta nella natura stessa della fede che è fides quaerens intellectum, fede che esige di penetrare nell’intelligenza dell’uomo, di essere pensata dall’intelligenza dell’uomo. Non giustapponendosi a quanto l’intelligenza può conoscere con la sua luce naturale, ma permeando dal di dentro questa stessa conoscenza. La storia è stata dolorosamente segnata da esperienze di mancato dialogo tra fede e scienza. Il dialogo è oggi necessario, diversamente troppo grande sarebbe il danno se la Chiesa pronunciasse risposte che non incontrano più le domande che oggi si pone l’uomo nella sua consapevole salita lungo la scala della verità. Per questo, ovunque si elabori una conoscenza scientifica della verità la Chiesa deve avvertire l’esigenza di esser presente, perché la sua opera evangelizzatrice non resti estranea a nessuna elaborazione culturale. Ma non è solo la Chiesa ad avere bisogno della cultura perché la sua fede non sia una parola incomprensibile; anche la cultura ha bisogno della Chiesa. E la ragione profonda e universale sta nella comune passione per la verità e per l’uomo, meglio ancora: “per la verità dell’uomo”.  All’uomo contemporaneo, tentato di rinunciare alla conoscenza della verità, la Chiesa ricorda con una forte espressione che verità e scienza non sono conquiste gratuite ma il risultato di una resa all’oggettività e di una esplorazione di tutti gli aspetti della natura e dell’uomo. Resa all’oggettività o in altri termini: la verità scientifica è come ogni altra verità debitrice soltanto a se stessa e alla suprema verità che è Dio, creatore dell’uomo e di tutte le cose.  Tale dialogo darà alla Chiesa maggiore sensibilità verso le esigenze culturali dell’uomo contemporaneo, aggiornerà il suo linguaggio e le sue categorie culturali, approfondirà la conoscenza stessa del suo messaggio e potrà spingere la cultura a scrutare più profondamente il mistero dell’uomo, riscoprendo le radici cristiane e umanistiche dalle quali si è sviluppata la cultura europea.

A questo primo stile di dialogo nel segno della Parola incarnata nella storia, segue un secondo stile: la Parola rifiutata dalla storia, estromessa e negata nel segno della Croce (Ebrei 13,12). La formula corrente dell’inculturazione della Parola nelle parole della storia e della cultura può suggerire un atteggiamento di acritica accoglienza del dato culturale quale che sia, come se la Parola possa prender dimora ovunque e a qualsiasi prezzo senza esercitare un discernimento che può anche assumere una forma critica: per esempio nei confronti di una scienza che ritenga di potersi porre come istanza unica di verità e quindi in grado di coprire tutte le necessità esistenziali dell’uomo. Ancora nei confronti di uno sviluppo scientifico tanto straordinario da ridurre l’orizzonte umano al livello di ciò che è misurabile con le coordinate scientifiche, obliterando le dimensioni dell’etico, del bello, dell’affettivo e dello spirituale.

E infine la fecondità, la creatività della Parola capace di generare cultura. Scegliendo di chiamarsi Benedetto papa Ratzinger ha voluto ricordare il periodo storico della prima guerra mondiale e “il coraggio e l’autentica profezia di pace” del suo predecessore Benedetto XV. Ha voluto altresì ricordare san Benedetto da Norcia, che ha chiamato “patrono del mio pontificato”. Nell’Udienza in piazza san Pietro il 9 aprile 2008 ha detto: “L’opera di san Benedetto e in modo particolare la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale che mutò il volto dell’Europa suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’Impero romano, una nuova unità spirituale e culturale quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. È nata proprio così la realtà che noi chiamiamo Europa”. Ritroviamo in queste parole l’eco dell’insistente richiamo di papa Giovanni Paolo II perché la Costituzione che l’Europa si stava dando in quegli anni iscrivesse il riconoscimento delle “radici cristiane dell’Europa”.  Papa Wojtyla non riuscì nel suo intento e la Costituzione europea, laicamente, afferma: “Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto…”.

  • Giuseppe Grampa

    Sacerdote dal 1965, dopo alcuni anni di attività pastorale, si è dedicato allo studio della filosofia delle religioni a Parigi e all’insegnamento nell’Università Cattolica di Milano, nell’Università degli Studi di Padova e nell’Istituto filosofico-teologico di Scutari (Albania). È stato direttore del mensile diocesano ambrosiano Il Segno. Dal 2021 è rettore dell'Università della Terza Età di Milano.