È un Benedetto Croce poco conosciuto e riletto come interprete del nichilismo contemporaneo quel che viene oggi proposto in un volumetto della Morcelliana con una postfazione assai acuta di Ilario Bertoletti. In realtà, oltre i saggi evocati nel titolo, sono qui raccolti altri due brevi scritti – “Il peccato originale” e “La vita, la morte e il dovere”,- pagine stese tra il 1946 e il 1952, allorché il filosofo, di fronte alla barbarie nazifascista, agli orrori della seconda guerra mondiale, all’affermarsi del totalitarismo comunista, si misura con una rivisitazione della sua stessa filosofia. Bertoletti è assai puntuale nella ricostruzione della genealogia teoretica del padre nobile del liberalismo italiano, che porta alla elaborazione di assunti alla luce dei quali G.F. Contini ha parlato di un “nuovo Croce”. In dialogo con A. Caracciolo e P. Piovani, due studiosi che con questo Croce hanno istituito un serrato confronto, Bertoletti prende le mosse dalla critica crociana ad Hegel, che finisce col risolvere il suo sistema in una forma cuspidale culminante nello Spirito assoluto.
La risoluzione crociana della filosofia in storiografia è dunque il compimento di un programma di demitizzazione della teoresi hegeliana, sino alla prospettazione di una antimetafisica che dissolve gli inconsapevoli teologumena –vale a dire ipotesi teologiche desunte da un fatto storico- ancora presenti in Hegel e nella filosofia moderna. Del resto, quando nel 1942 Croce scrive il saggio “Perché non possiamo non dirci cristiani”, il Cristianesimo di cui rivendica l’eredità è inteso come codice morale dell’Occidente e il suo storicismo si autorappresenta come religione della libertà da cui è espunto ogni rimando cristologico. La figura di Cristo viene ridotta a quella di Gesù, ed il problema teologico ad essa sotteso risulta sostanzialmente interdetto. Dunque né parousìa né éschaton all’interno dell’immanentismo crociano. Esso tuttavia prende atto delle drammatiche astuzie della storia che, con il suo corso, smentisce l’assunto di un eterno progresso spirituale nel segno della libertà. Ha inizio per Croce “il dramma filosofico dello stupore”, suscitato dalla presenza del male, da un mistero dell’iniquità che esibisce una consistenza ontologica irriducibile a quella puramente empirica.
La categoria dell’”Utile” –uno dei quattro “distinti”, insieme al “Vero”, al “Bello” e al “Bene”- si trasmuta in quella della “Vitalità”, “negatività persistente”, “peccato originale”. Lo statuto teoretico della dialettica crociana è dunque sottoposto ad una profonda curvatura, assumendo un respiro metafisico. Nel mentre il filosofo riafferma l’alterità della sua filosofia alla metafisica viene a trovarsi al cospetto di quel baratro della ragione rappresentato dalla “Vitalità”. Al pari di Kant, per rendere conto dell’esperienza limite del male, Croce ricorre a quella forma particolare di pensiero metafisico che sono i teologumena, perlomeno come necessità gnoseologica. Non questiona con un Dio trascendente, ma “esperisce il disgiungersi del reale dal razionale e insorge contro il risolversi della storia in cieco fato”, fino a incontrarsi con l’Anticristo, l’antagonista di Dio e del suo Messia, la facies nichilistica della modernità, “una tendenza della nostra anima che, anche quando non si fa sentire in essa operosa, vi sta in agguato e non sale dagli abissi, non viene tra noi, ma è in noi”. E ancor più : l’Anticristo, vale a dire “il negativo che vuole comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma dis-creazione”.
L’irruzione del teologumeno nella sua filosofia non significa che Croce, in coerenza col suo immanentismo, riconosca a Cristo una funzione salvifica. Piuttosto un concetto limite per raffigurare la sofferenza ontologica del singolo. “L’individuo nel corso della sua vita è il Christus patiens dei dolori terribili e dei casi atroci”. Dunque un nuovo significato del “non possiamo non dirci cristiani”. Non più nel senso di una religione della libertà, ma nel senso che l’esistenza si riconosce nella sua finitezza, nelle parole della passione di Cristo, in cui può trovare un argine alla distruttività del nichilismo. Alla fine, dunque, un Croce ancora nostro contemporaneo.
“L’Anticristo che è in noi” segna, verso la fine della sua operosa vita, una crisi di coscienza nel filosofo di Pescasseroli, che aveva, peraltro, sempre avuto una concezione drammatica della vita, inquitudine favorita fin da giovane dal dramma personale del terremoto di Casamicciola, nel quale aveva perso entrambi i genitori e una sorella. In realtà ad entrare in crisi è una visione immanentistica della vita e della storia che gli deriva dal pensiero di Hegel, che egli aveva assimilato, nonostante avesse inteso rettificarlo nel suo “Ciò che è vivo e ciò che è morto in Hegel”. All’indomani della seconda guerra mondiale la presenza del male nella storia umana gli appare forte, e tale da mettere mettere in crisi la sua idea della storia come “storia della libertà”. E’ l’immanentismo, l’idea cioè che non vi sia altra realtà al di fuori della natura e della storia, che gli appare inadeguato a spiegare la possibilità della fine stessa della civiltà, ma è questa una verità che non ha il coraggio di confessare a sé stesso, perché confessarla avrebbe significato per lui ancorarsi alla trascendenza, ciò che la sua filosofia, pur sempre hegeliana, non contemplava. E tuttavia, un Anticristo confinato negli abissi della propria coscienza strarpava da tutte le parti. insomma: noin ebbe forse il coraggio di ammettere la possibilità che l’Anticristo poteva essere anche fuori di noi. Il “Perché non possiamo non dirci cristiani” sarebbe dovuto diventare “Perché dobbiamo essere cristiani”.