Nella parte centro-orientale di Teheran si apre la seconda piazza per estensione di tutto l’Iran, la prima della città, la Meydāne Āzādī, Piazza della Libertà, al cui centro si staglia la torre iconica, la Torre della Libertà, che per anni ha rappresentato simbolicamente la capitale. Costruita nel 1971 nell’ambito delle fastose commemorazioni del 2500° anniversario della fondazione dell’Impero persiano e conosciuta come “Ricordo della Piazza dello Shah”, doveva indicare la continuità monarchica del Paese da Ciro il Grande fino al sovrano del tempo, Mohammad Reżā Pahlavi. Un lunghissimo arco temporale che può essere letto ancora oggi in termini rivoluzionari, essendo questo un elemento che da sempre caratterizza l’Iran: da Ciro II, grande conquistatore ma mite con i vinti, qualità assai rara all’interno della concezione del potere e sella superiorità del despotismo orientale, fu il primo a cercare di gestire, in questo senza dubbio può essere definito rivoluzionario e non solo per l’epoca, un impero multireligioso e multietnico attraverso il riconoscimento di una certa libertà di credo; attraverso l’ordine safavide che fu esso stesso rivoluzionario, andando a trasformare radicalmente la politica sia interna che internazionale dell’omonimo impero che durò dal 1501 al 1736; fino alla dinastia Pahlavi, che prima con Reżā Khān, il cui sogno era far della Persia un “moderno” Stato occidentale percorrendo la strada tracciata da Atatürk, poi con il figlio Mohammad, ancorò saldamente l’Iran agli Stati Uniti. Mohammad a suo dire fu un “monarca rivoluzionario” grazie alla sua Rivoluzione bianca, ambiziosissimo programma di riforme nei primi anni Sessanta con le quali tentò di sviluppare l’Iran attraverso una sintesi di elementi liberali e politiche socialiste, ma che metteranno a nudo la fragilità di un sistema fortemente sbilanciato e iniquo. E proprio quella piazza che avrebbe dovuto celebrarne i fasti, incarnare il simbolo di quella modernità che avrebbe dovuto proiettare il Paese verso il futuro, sin dal 1978 divenne il grande luogo di ritrovo e di protesta da cui scaturì la rivoluzione iraniana e alla caduta del regime monarchico verrà ribattezzata Piazza della Libertà. Āzādī. Così come durante le fasi concitate che riporteranno in patria dal suo lungo esilio Ruhollah Khomeini fu tra gli epicentri delle dimostrazioni contro lo Shah, nel corso della storia recente della Repubblica Islamica, essa è stata teatro di varie forme di protesta contro il regime confessionale. Fu così per le contestazioni studentesche del luglio 1999, che in assenza di reali partiti di opposizione, iniziarono a rappresentare la voce critica della società verso le azioni di governo e che provocheranno una durissima repressione da parte di corpi paramilitari, tanto da essere ricordata come la Fajeh Kuye Daneshgah, la “tragedia del dormitorio universitario”. O ancora nel 2009 quando migliaia di giovani si mobilitarono contro il risultato delle elezioni presidenziali che videro prevalere Mahmoud Ahmadinejad, con percentuali ritenute opache, frutto di brogli elettorali. Alla testa dei moti i candidati sconfitti Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, forti della loro “onda vede”, il colore indossato dai manifestanti che simboleggiava il riformismo. Anche in questo caso la repressione fu non solo violenta, ma duratura. Nel 2011, la piazza divenne teatro di forme alternative di protesta, come quelle che videro gruppi di giovani, ragazzi e ragazze, giocare con pistole ad acqua, bagnandosi vicendevolmente. Iniziato come un semplice gioco per combattere il clima torrido della capitale, grazie a Facebook l’evento attirò oltre 14.000 persone ed assunse il profilo di una sfida al regime, in aperta violazione alle “norme sociali”, come ebbe a dichiarare il Comandante della Polizia morale, sostenendo la legittimità degli arresti poiché andavano a contrastare comportamenti “anormali” e contrari ai principi dell’Islam. Tuttavia il simbolo di libertà attorno al quale si cristallizzeranno i movimenti di protesta sarà l’hijab, non in quanto tale, ma la sua obbligatorietà. Abolito nel 1936 da Reżā Khān, poiché considerato simbolo di arretratezza, tornò in auge come forma di protesta proprio durante la rivoluzione del 1979, quando le donne lo indossarono in segno di sfida al divieto monarchico. Khomeini, una volta andato al potere, annunciò subito che le donne avrebbero dovuto attenersi al codice di abbigliamento islamico che prevedeva il velo. Nel luglio del 1980 fu reso obbligatorio negli uffici pubblici, nella più ampia campagna di islamizzazione delle istituzioni, fino alla sua imposizione a tutte le donne, anche alle non musulmane, a partire dal 1983. Le rivolte cui stiamo assistendo oggi rivendicano la libertà di scelta delle donne se indossarlo o meno. E non è più una questione solamente femminile. Gli stessi uomini, ragazzi, compagni, fidanzati, in segno di sfida e scherno verso il regime si mostrano velati sui social-media, le piazze della libertà e della protesta contemporanee, con portata globale. Contrariamente a ciò che è avvenuto nel recente passato, le proteste di oggi mostrano alcuni elementi di novità. Innanzitutto non è portata avanti solo da giovani studenti o da membri appartenenti alle classi-medio-alte, ma gode anche del sostegno dei Bazaris, la componente commerciale, una forza non solo economica, ma se tenuto conto dell’indotto, con un potenziale di un diverse centinaia di migliaia di persone mobilitabili, esattamente come avvenne nel 1978. Accanto agli studenti ed ai commercianti, da qualche settimana è iniziata anche la mobilitazione di parte della classe operaia. Tuttavia il sostegno alle proteste è limitato ai lavoratori precari, senza il reale appoggio dei grandi gruppi sindacali, ancora sotto il fermo controllo del regime, nonostante si siano spinti a condannare gli atteggiamenti fortemente misogini del governo. Inoltre il sindacato è oggi poco rappresentativo: l’impatto negativo delle sanzioni internazionali ha modificato il mondo del lavoro trasformando la maggior parte dei contratti da indeterminati a temporanei e sotto il controllo di agenzie di lavoro interinale, cui è andata accompagnandosi una progressiva e drastica riduzione delle organizzazioni sindacali di base. Difficile è riuscire a prevedere quali potrebbero essere gli scenari futuri. La protesta oggi è acefala: sul breve periodo la mancanza di guide carismatiche favorisce il movimento, poiché impedisce al regime di arrestare gli ideologi e i capi, ponendo fine alle manifestazioni, così come accadde nel 2009. Ma proprio a causa dell’assenza di elementi di coordinamento il movimento manca di una progettualità politica: alcuni vogliono l’abolizione della teocrazia, ma senza portare una proposta alternativa. Ed ecco che possono qui inserirsi pericolosi fattori di destabilizzazione. La protesta potrebbe essere sfruttata funzionalmente da elementi esterni l’Iran, primo fra tutti quello dei Mujahedin del Popolo (MEK) di Maryane Rajavi, un’associazione che in passato fu inclusa nell’elenco dei gruppi terroristici dall’Unione Europa e dagli USA, ritenuta colpevole da Teheran di aver condotto oltre 17.000 omicidi nel corso della sua attività. Bruxelles e Washington decisero poi di cancellarla dalla black list in seguito alla promessa dei sui vertici di abbandonare le azioni violente. Da allora, diversi i funzionari statunitensi, soprattutto repubblicani, favorevoli ad un regime change, hanno espresso il loro sostegno ai MEK. Sul piano interno la partita si gioca tutta nella successione all’ormai anziano Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran dal 1989, quando subentrò a Khomeini. Le divisioni interne all’élite e la lotta di potere delle diverse fazioni potrebbe spingere la reale forza militare del Paese, i Sepah-e Pasadaran, ad effettuare un colpo di Stato. In questo caso vi sarebbe una durissima e sanguinosa repressione della rivolta, che consentirebbe ai Pasdaran di mantenere intatto non solo il loro potere politico, ma soprattutto quello economico: vera partita interna delle lotte intestine che oggi corrono parallele ai moti di piazza, i cui slogan Jin, Jiyan, Āzādī (Donna, Vita, Libertà), ricordano l’indole rivoluzionaria del popolo iraniano e che sperano presto di portare a piena realizzazione, festeggiando in Piazza Āzādī.

Foto di Hadi Yazdi Aznaveh su Unsplash

 

  • Michele Brunelli

    Docente di Politica e Società del Medio Oriente e di Storia ed Istituzioni dei paesi afro-asiatici presso l’Università degli Studi di Bergamo. E’ anche Direttore del Master in Prevenzione e contrasto alla radicalizzazione e al terrorismo nel medesimo Ateneo.