La riforma costituzionale del Titolo V, nel 2001, ha mostrato fin dall’inizio uno squilibrio nei rapporti tra Stato e Regioni. È sufficiente leggere il terzo comma dell’articolo 117 sulle materie concorrenti, nelle quali possono essere attribuite, con legge statale, forme particolari di autonomia alle Regioni.

Le materie concorrenti riguardano: rapporti internazionali e con l’U.E. delle Regioni; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione con l’esclusione della formazione professionale e salva l’autonomia degli istituti scolastici; professioni; ricerca scientifica, tecnologica, sostegno all’innovazione nei settori produttivi; tutela della salute; protezione civile; governo del territorio; grandi reti di trasporto e navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; ordinamento della comunicazione; valorizzazione dei beni culturali e ambientali; previdenza complementare e integrativa; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale. Non basta: l’articolo 116 prevede che forme di autonomia possono essere attribuite nelle materie di competenza esclusiva dello Stato, secondo comma dell’articolo 117, nell’organizzazione della giustizia di pace, nelle norme generali sull’istruzione e nella tutela dell’ambiente (rispettivamente lettere l, n e s).

Nell’ultimo governo di centrosinistra, quello di Romano Prodi dal 2006 al 2008, la linea assunta, visto il tempo assai recente dall’approvazione del nuovo Titolo V e anche l’esigua maggioranza di due parlamentari al Senato, fu quella di dare priorità a una legge di procedura parlamentare per le intese con le Regioni, non aprire confronti sul comma tre dell’articolo 117, tenere fermi due principi costituzionali guida: l’articolo 119 che stabilisce “la legge dello Stato istituisce un Fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante…” per finanziare le funzioni pubbliche attribuite a Regioni e autonomie locali, promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, “favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona…”; l’altro, contenuto nella lettera m dell’articolo 117 e inserito per la prima volta in Costituzione, relativo alla competenza esclusiva dello Stato nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

La legge di procedura, che per la fine del governo e della legislatura, non poté essere discussa neppure nel consiglio dei ministri, non era un diversivo: è necessaria. Senza di essa il governo nazionale tratta con la Regione che fa richiesta di autonomia, sente la conferenza Stato-Regioni, invia in parlamento il provvedimento: deputati e senatori possono solo votare a favore- è richiesta per l’approvazione la maggioranza assoluta dei componenti- oppure contro. Nella legge sulle procedure veniva istituita una fase preliminare di decisione delle Camere sulla richiesta di autonomia, le materie, i tempi. Il parlamento poteva bloccare l’iter della proposta o modificarla. Fino al 2018, governo Gentiloni, niente si era poi concretamente mosso.

Nel febbraio di quell’anno il sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega agli affari regionali Giancarlo Bressa firma un accordo con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna: viene archiviata la spesa storica a beneficio dei fabbisogni standard, si prevede la compartecipazione regionale su più tributi, si assegnano all’autonomia delle tre Regioni materie importanti come istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, politiche del lavoro, previdenza integrativa, rapporti con l’U.E. Veneto e Lombardia rivendicano da tempo anche introiti da trattenere in base alla ricchezza prodotta nei territori. È singolare: un governo, i cui componenti avevano sostenuto la riforma costituzionale Renzi-Boschi, vara a legislatura pressoché scaduta accordi che muovono in senso contrario. La riforma costituzionale, bocciata nel referendum, riguardo al Titolo V, sopprimeva le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni e riattribuiva allo Stato programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica, previdenza complementare e integrativa, tutela e politiche attive del lavoro, commercio estero, sistema della protezione civile, ordinamento sportivo e delle professioni, energia, grandi infrastrutture.

Ed eccoci all’oggi. Il disegno di legge proposto dal ministro Calderoli, ispirato dal vetero leghismo veneto, cancella il Fondo di perequazione e rinvia al dopo, cioè a mai, i livelli essenziali (Lep) delle prestazioni. Vi si afferma che se entro un anno non sarà approvata la legge sui Lep si procederà ugualmente con le autonomie particolari, ritornando all’applicazione della spesa storica. Non è un problema di distrazione se il parlamento non ha ancora definito i Lep: mancano le risorse! La procedura per l’approvazione delle intese con le Regioni concede trenta giorni per esprimersi al ministero dell’economia, dopo di che scatta il silenzio-assenso; trenta giorni per il parere alle commissioni per gli affari regionali di Camera e Senato, di cui il governo può non tenere conto. Il testo definitivo per la “mera approvazione” a maggioranza assoluta è inviato a Camera e Senato. Il ministro per gli affari regionali tratta il rapporto con le Regioni come accordi internazionali tra Stati. La Costituzione impone il Fondo di perequazione e che siano determinati, prima di ogni concessione di autonomia particolare, i livelli essenziali delle prestazioni. In caso contrario si varano norme anticostituzionali e si minano unità del paese e uguaglianza dei cittadini.

Il centrosinistra mostra a volte un’incredibile subalternità politico-culturale alla destra: ieri con l’Emilia-Romagna, oggi con l’aggiunta della Toscana. Non si tiene conto dell’esperienza del covid, delle sfide del mondo globale, dell’orizzonte della democrazia federale europea. Prima di ogni concessione di autonomia è necessario anche inserire in Costituzione il “principio di supremazia”. Né si tiene conto degli umori delle persone: soffia un vento, talora ingiusto, contro il regionalismo, necessario invece per evitare un centralismo che allontanerebbe dai cittadini scelte democratiche legate al territorio. Sbaglia la destra se pensa di dare equilibrio alla nazione accompagnando al regionalismo differenziato il presidenzialismo. Senza entrare nel merito di quest’ultimo, sottolineo che non si fonda la coesione di un paese sul moltiplicarsi delle contrapposizioni centro-territori. È bene non ripetere gli errori: la riforma delle istituzioni, le leggi elettorali in Italia devono essere frutto di accordi, non approvate a colpi di maggioranza. Le istituzioni democratiche sono dei cittadini, non dei partiti.

  • Vannino Chiti

    Laureato in filosofia, è stato sindaco di Pistoia, presidente della Regione Toscana, sottosegretario alla presidenza del consiglio nel secondo governo Amato, ministro per i rapporti con il parlamento e le riforme istituzionali nel secondo governo Prodi, vicepresidente del Senato. Attualmente collabora con la rivista Testimonianze e con la scuola per il dialogo interreligioso e interculturale di Firenze.