Senza il traino di Calenda, Renzi sarebbe fuori dal parlamento. Egli si è ridotto a fare il Ghino di Tacco della politica italiana, al punto da menare vanto di essersi specializzato nell’abbattere i governi. Non ci si sorprenderebbe – qualche segnale lo abbiamo già avuto – di un suo collaborazionismo con il governo più di destra in Europa. Si converrà che non è poco per uno che, per un tempo non breve, è passato alle cronache come il leader della sinistra italiana. E tuttavia, al netto di lui e persino nonostante lui, sarebbe un errore sottostimare la portata del renzismo. Esso, pur con qualche distinguo, può essere letto come la versione nostrana del blairismo con una spruzzatina di provinciale americanismo. Un paradigma, va detto, che, in quella stagione, fece breccia in larghi settori della sinistra italiana ed europea. Un caso serio, un’esperienza non adeguatamente elaborata che – in casa nostra e in questa vigilia del congresso PD che aspirerebbe a sciogliere il nodo irrisolto della sua identità – dovrebbe essere posta al centro del confronto dentro quel partito e nell’intero campo della sinistra. Oggi, con il declino e il discredito del suo attore protagonista, gli ex renziani protestano che non li si debba definire così, al passato, appunto “ex renziani”. Essi hanno un po’ torto e un po’ ragione. Torto perché, insisto, quel passato e quel paradigma ancora aleggiano. Ragione perché, a quel tempo, dalla fascinazione per esso pochi furono immuni. Nel caso del PD, avendolo frequentato, farei fatica a fare un solo nome – con l’eccezione di Bersani – che avversasse la leadership di Renzi. Anche nella sedicente sinistra interna. Una seconda contraddizione: non ha torto Renzi quando bolla come ingrati coloro che, lui regnante, ottennero posti e carriere. Ma costoro sono ingenerosi con sé stessi quando derubricano il renzismo come un peccato di gioventù e pretendono di farlo dimenticare. Compreso Bonaccini che, tra gli stretti collaboratori di Bersani, d’un tratto passò con Renzi e persino presiedette il suo comitato elettorale per la guida del PD.

Dunque, cosa fu il renzismo, ben oltre Renzi? Va detto che esso rappresentò una interpretazione esasperata del segno impresso al PD da Veltroni nel suo atto di nascita, il cui manifesto politico e programmatico è già tutto condensato nel discorso del Lingotto con il quale egli inaugurò la sua segreteria. La prima dopo il varo del PD. Nel solco non dell’Ulivo, ma, di nuovo, imprimendo una curvatura vieppiù liberale e leaderista ad esso. Dicevo: provincialmente occhieggiante all’americanismo come appunto Veltroni. E, a seguire, Renzi, che fece il verso all’obamismo. Quali la temperie e gli ingredienti di quel paradigma?
Sullo sfondo, stava una lettura ingenuamente ottimistica della globalizzazione la cui crisi, in verità, già si stava affacciando. Il PD nasce nel 2007, nel mentre, negli Usa, si profila la grande crisi finanziaria che poi investì l’Europa. Una “ideologia progressista”, già quella di Veltroni, che ha preso corpo in occidente dopo la caduta del muro di Berlino, che ha concorso a stemperare sino a dissolvere le culture critiche verso il modello capitalistico. La convinzione che esso quasi non conoscesse varianti e di sicuro privo di alternative. A seguire, una visione irenica della società, dalla cui evoluzione lineare e appunto progressiva tutti avrebbero tratto vantaggio (lo “sgocciolamento”), nell’illusione che il conflitto sociale, certo in forme nuove rispetto a quelle del vecchio fordismo, non avesse più corso. È su questo sfondo che prende corpo altresì l’idea di una evoluzione del sistema politico ispirata a una drastica semplificazione in senso bipolare e persino bipartitico. Per inciso, forzando sulla tradizione pluralistica della storia politica italiana. Un bipartitismo considerato agevole e non lacerante in quanto entrambi, destra e sinistra, sostanzialmente convergenti sulle coordinate fondamentali della società. Meriterebbe approfondire la tesi sostenuta dal sociologo Carlo Trigilia, lo studioso che più ha tematizzato il nesso tra la regola elettorale maggioritaria (e la conseguente dinamica centripeta del sistema politico) e la mortificazione della rappresentanza degli interessi dei ceti popolari. Con ciò che ne deriva: il loro divorzio dalle sinistre, sempre più confinate nel ridotto delle cosiddette aree ztl. Una sorta di tradimento dello storico legame delle sinistre con il popolo e il movimento dei lavoratori. Un legame che non è forzato concepire come DNA identitario delle sinistre.

Ad accompagnare questa visione e queste dinamiche la retorica dell’estinzione delle ideologie. Una illusione ottica, un luogo comune fuorviante, perché all’esaurimento di quelle vecchie più strutturate e palesi se ne sostituivano di nuove ancorché meno elaborate e riflesse. A cominciare da quella di stampo tecnocratico, liberale e conservatore del “pensiero unico” che conduce alla soluzione unica. Evocatrice della formula tatcheriana del TINA “there is no alternative”. La quale spiega il paradosso in cui incappano i cultori del bipartitismo: una democrazia competitiva tra due offerte politiche a prima vista alternative che, tuttavia, in omaggio al mantra della convergenza al centro da conquistare, conduce a politiche affini o addirittura identiche. Al punto da autorizzare la spinta ad affidare il governo ai tecnici. Non è un caso che il PD sia stato il partito più schierato con i governi tecnici. Prima di Monti, poi di Draghi. E che, in esso, i più strenui custodi della ispirazione liberal che amano qualificarsi come “sinistra liberale” (misconoscendo una qualche tensione tra sostantivo e aggettivo), si siano spinti al punto da teorizzare che le loro agende (Monti e Draghi) dovessero coincidere con il programma politico-elettorale del PD. Ricordo la raccolta di firme di quella componente che, nel 2013, proponeva di andare al voto facendo di Monti il candidato PD a palazzo Chigi.

In quel quadro teorico e pratico, i partiti erano investiti da una doppia deriva. La prima: quella di chi smarrisce la propria natura di parte, a servizio certo della società tutta, ma scegliendo e selezionando gli interessi e i valori da rappresentare (perché, ripeto, il conflitto è immanente ai rapporti sociali) con lo slittamento dal “partito unico” della sinistra (Veltroni) al preteso “partito della nazione” (Renzi). Cioè l’esatto opposto, ma praticando le stesse politiche. Così pure si spiegano certi riflessi condizionati lessicali politicamente eloquenti (e problematici). Esemplifico: l’enfasi sull’innovazione a discapito della domanda di protezione; la retorica del merito, dell’eccellenza e dei talenti a discapito della lotta contro le disuguaglianze quale bussola della sinistra; la conclamata vocazione maggioritaria cui sottende la menzionata pretesa di una rappresentatività indistinta e totale dell’intero corpo sociale e che conduce a ridurre la politica al solo obiettivo di governare, quasi che essa non fosse anche rappresentanza e che la democrazia non si nutrisse pure del ruolo dell’opposizione. Ogni riferimento alla natura “ministeriale” del PD è intenzionale. Con una seconda deriva che riguarda la forma partito. Il mantra fallace della dissoluzione delle differenze ideologiche concorre a produrre insieme leaderismo e correntismo patologico nei partiti. Dando per morte le culture politiche, i partiti si affidano al capo occasionalmente considerato più idoneo a vincere, le correnti si riducono a cordate personali e di gruppo che si spartiscono il potere (oligarchie autoreferenziali), si estenuano sino ad estinguersi le radici sociali e territoriali dei partiti stessi, sempre più assimilabili al modello americano di comitati elettorali che vivono solo il tempo del voto mobilitati dal capo di turno attraverso i media vecchi e nuovi. Del resto, che altro senso potrebbero avere i partiti se persino si teorizza una loro generica rappresentanza universale e indistinta priva cioè di precisi ancoraggi a concreti gruppi sociali?

Da quel tempo, lo scenario è molto cambiato. L’ottimismo progressista si è risolto nel suo contrario. Nuovi conflitti si sono sostituiti alla vecchia linea di frattura tra l’est e l’ovest del mondo. Conflitti di civiltà, di cultura, di religione. Le migrazioni hanno assunto dimensioni epocali e strutturali, non più suscettibili di essere derubricate a emergenza. La pandemia e la guerra nel cuore dell’Europa hanno fatto lievitare la domanda di sicurezza nelle nostre comunità. I poteri pubblici e lo Stato, anziché ritrarsi (lo Stato minimo o residuale di marca vetero-liberale), hanno riconquistato una centralità e una responsabilità crescenti. È quantomai lontana la temperie in cui nacque il PD. Non ci è dato qui neppure di accennare alla discussione sulla pace e sulla guerra imposta dal conflitto in corso in Ucraina. Ma anche al riguardo meriterebbe domandarsi se PD e sinistre, giustamente schierati a difesa di un popolo aggredito e ancorate al nostro storico atlantismo, non avrebbero potuto ritagliarsi una posizione meno supina e orientata a propiziare un autonomo protagonismo dell’Europa, per altro coerente con la più illuminata politica estera del nostro passato. Notoriamente contrassegnata da un’attenzione speciale al fronte sud e al Mediterraneo. Una politica che fu, ancor prima che della sinistra, dei leader della Dc: da La Pira a Fanfani, da Moro ad Andreotti.

Queste, a mio avviso, le questioni che dovrebbero occupare il centro del confronto congressuale PD. Mi ha incuriosito la circostanza che Michele Salvati, il più lucido ideologo del PD versione veltroniana prima e renziana poi, entrambe ispirate al paradigma liberal Usa, di recente, quasi sussurrandolo a mezza voce, abbia suggerito di riscattare il laburismo. So bene che anche del laburismo si danno più versioni e tuttavia mi chiedo se non sia l’avvisaglia di un ripensamento.

 

Foto: Pietro Luca CassarinoCC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

  • Franco Monaco

    Pubblicista, già presidente dell’associazione «Città dell’uomo» e parlamentare della Repubblica; fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.