Negli ultimi 30 anni (e più) la questione fiscale è stata il convitato di pietra del dibattito politico. Più precisamente essa ha rappresentato un motivo identitario ideologico delle destre politiche in tutto il mondo, senza che la sinistra abbia mai potuto, voluto o saputo proporre una visione alternativa e un confronto politico esplicito. Le destre hanno presentato la tassazione come una vessazione dei cittadini da parte dello Stato, delle burocrazie pubbliche, della sinistra, nascondendo il fatto che il gettito fiscale serve soprattutto a finanziare la spesa pubblica e, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, i sistemi di welfare. Le tasse dovevano quindi essere tagliate sempre e comunque, la progressività ridotta o eliminata e soprattutto andavano ridotte le tasse sulle imprese e i “ricchi”, unici agenti economici in grado di produrre reddito, innovazione e benessere per tutti. Al tempo stesso interi settori della spesa pubblica (come la scuola, la sanità, ma anche le carceri o l’esercito) potevano essere privatizzati in tutto o in parte in quanto la gestione pubblica era per definizione inefficiente e corrotta.

Questo approccio ha avuto un successo notevole: le aliquote dell’imposta sulle società si è ridotta dal 45% e più – negli anni ’80 del ‘900 – al 20% o poco più di oggi, mentre alle multinazionali è stato consentito di eludere, fino a pagare pochissimo se non niente. Le aliquote più elevate dell’imposta personale sul reddito si sono ridotte dal 70%, 80%, o 90% al 40% o meno di oggi. Le agenzie fiscali sono state de-finanziate in modo massiccio. L’utilizzo delle nuove tecnologie è stato frenato per inesistenti ragioni di privacy.

Queste scelte sono state giustificate in base alla convinzione – errata e in malafede – secondo cui la riduzione della pressione fiscale avrebbe prodotto un incremento di gettito sufficiente ad autofinanziarsi (effetto Laffer). La convinzione, ideologica, che il mondo reale funzionasse in base ai desideri di politici improvvisati o sprovveduti, ha spinto la povera Liz Truss a varare la sua prima ed unica manovra economica, subito capovolta dal suo successore Rishi Sunak. Del resto, l’unica cosa che un premier britannico non può permettersi è andare contro le indicazioni dei mercati (violente ed unanimi). L’esperienza della Truss è stara molto utile a Giorgia Meloni che è stata costretta a rendersi conto che esiste una distanza tra fantasia e realtà, e che le basi “culturali” (!?) della linea di politica fiscale sostenuta dalla destra italiana nelle recenti elezioni, nonché nei dieci anni precedenti, non è particolarmente solida. Ciò spiega almeno in parte il perché della opportuna prudenza sui saldi di bilancio. Tuttavia, per quanto riguarda le scelte di politica tributaria – se pure non dirompenti (per il momento) in termini di gettito sacrificato – la valutazione non può che essere estremamente negativa.

La preoccupazione principale sembra infatti essere stata quella di gratificare gli evasori e di incentivare l’evasione. Vi sono una decina di sanatorie – fra cui due condoni veri e propri – si riaprono termini, si allungano scadenze, ecc. La misura più negativa risulta quella dell’ennesima cancellazione di cartelle già emesse – e quindi relative a mancati pagamenti accertati e riconosciuti con perdite di gettito molto elevate intorno al miliardo di euro per ogni anno considerato – e di altri crediti. Per lo più multe per violazioni al codice della strada o altre sanzioni amministrative, molte delle quali perfettamente esigibili, checché ne dica il Governo, molte già rateizzate e quindi in pagamento: queste cancellazioni penalizzeranno soprattutto i Comuni, senza peraltro grandi proteste da parte dei sindaci.

A ciò si aggiungono gli interventi di aumento del limite del contante che, nonostante contorcimenti vari per cercare di giustificarlo, hanno l’unico effetto e obiettivo di facilitare l’economia sommersa, il riciclaggio, e l’autoriciclaggio di dimensioni contenute, e la corruzione. L’evidenza degli effetti praticamente certi della misura non ha creato nessuna remora da parte del Governo. Ancora più spudorata è la decisione di non punire più il rifiuto di utilizzare il POS da parte dei commercianti, che ha l’unico scopo di assicurare loro una franchigia di evasione certa che si sceglie di rendere non più tracciabile. C’è poi la misura più scandalosa che è l’estensione del limite per beneficiare del forfait da 65.000 a 85.000 euro, previsto per contribuenti autonomi e che già oggi consente a un livello di reddito effettivo di 35.000 euro, e di pagare 2.600 euro in meno di un dipendente e 3.500 in meno di un pensionato. Col nuovo limite la differenza di tassazione può arrivare a 10.000 euro in un anno. È uno scandalo, la cui gravità solo ora comincia a diventare consapevolezza diffusa nel mondo politico e tra i giornalisti. Anche in questo caso, però, quello che sorprende è che la maggioranza non prova nessun imbarazzo, né sente il bisogno di giustificare una misura contraria ad ogni principio di funzionamento di un buon sistema tributario, e viziata da palese incostituzionalità. Al contrario emerge la convinzione che i lavoratori indipendenti sono quelli che producono, che si assumono rischi e che quindi meritano un trattamento di riguardo, mentre i dipendenti sono garantiti, e i pensionati un peso da sopportare fino alla loro dipartita. A ciò si aggiunge la flat tax incrementale – sempre a favore delle stesse categorie – che ha il compito di allargare l’applicazione dell’aliquota ridotta anche ai soggetti ai quali il limite di 85.000 euro non si applica (e che in base alle dichiarazioni presentate sono pochissimi). Né si può dimenticare che queste categorie di contribuenti sono, in base alle statistiche ufficiali, responsabili del 65-70% dell’evasione delle imposte in Italia.

In conclusione, la politica fiscale della destra al governo esprime la rabbia e le frustrazioni di ceti affaticati dalla crisi, insicuri, preoccupati per il futuro e offre loro soluzioni infondate, prive di giustificazioni logiche, divisive del corpo sociale, insostenibili nel lungo periodo, e che presto saranno contestate dall’Unione europea.

Tutto ciò mentre a livello politico e scientifico si discute su come modernizzare e rafforzare i sistemi tributari tradizionali i quali sono sempre più in sofferenza, ma per motivi opposti a quelli identificati dal nostro Governo.

 

 

Foto di The New York Public Library su Unsplash

  • Vincenzo Visco

    Economista, professore di Scienza delle Finanze, ha insegnato all'Università di Pisa, alla Luiss e alla Sapienza di Roma. E' stato membro del Parlamento per sette legislature, Ministro delle Finanze e del Tesoro in numerosi governi, e periodi consecutivi. E' Presidente del centro studi Nens.