Sarebbe bello se le norme, soprattutto quelle solennemente sottoscritte in sede internazionale, fossero lo specchio di valori condivisi, una sorta di minimo comun denominatore sul quale costruire la vita collettiva.
Se così fosse, non si sarebbe scatenata – nella vicenda del porto “semichiuso” di Catania – la rissa di opinioni pretesamente giuridiche piegate ad uso della politica e sempre accompagnate alla conclusione secondo cui “il governo ha avuto la maggioranza e quindi fa quel che vuole”.
Se così fosse, forse si riuscirebbe a trovare un consenso minimo sulla interpretazione e applicazione di alcuni principi e alcune norme. Proviamo sinteticamente a enumerarle.

Primo. L’obbligo di soccorrere in mare le persone in pericolo (e tali sono sicuramente coloro che viaggiano dai paesi del nord africa nelle condizioni attestate da migliaia di filmati) fa parte del cd. diritto internazionale consuetudinario, cioè di quelle norme consolidatesi nei secoli e infine formalizzate in alcune convenzioni internazionali: le più note sono la convenzione SAR (Amburgo 27.4.1979, modificata nel 2004) e la convenzione ONU sul diritto del mare (Montego Bay 10.12.1982). Tale obblio grava sia sui soggetti pubblici che privati e deve essere adempiuto “senza tener conto della nazionalità e dello statuto” della persona in pericolo “nè delle circostanza nelle quali è stata trovata” (punto 2.1.10 Conv. SAR): dunque il motivo per cui una persona si è messa in viaggio, sia esso di protezione, sia economico o persino di piacere è del tutto irrilevante ai fini dell’obbligo di soccorso.

Secondo. L’obbligo di soccorso comporta l’obbligo di approdare nel porto più vicino ove non siano rimessi in pericolo i diritti fondamentali delle persone salvate: dunque, occorre che “i sopravvissuti assistiti siano sbarcati dalla nave che presta assistenza e portati in un luogo di sicurezza….. In questi casi, le Parti interessate dovranno organizzare lo sbarco non appena ragionevolmente possibile” (Conv. SAR, punto 3.1.9 introdotto nel 2004). Per i salvataggi effettuati nel Mediterraneo centrale il porto dove è possibile organizzare lo sbarco il prima possibile è ovviamente l’Italia: il fatto che Malta (talora più vicina al luogo di salvataggio) sia spesso inadempiente agli obblighi imposti dalla Convenzione (anche se, va riconosciuto, ha un carico di richiedenti asilo proporzionalmente molto più alto di quello dell’Italia) non legittima certo ulteriori inadempienze da parte dell’Italia. Tanto è vero che nel famoso “caso Rachete” la Cassazione ha affermato che, nel rifiutarsi di riportare in Libia i naufraghi e nel farsi largo “a spinta” nel porto italiano, la capitana aveva “assolto un dovere” e non poteva quindi essere né arrestata, né processata: ed è cosi irrilevante per la nostra coscienza civile che oggi si vogliano reiterare nei confronti delle navi ONG quegli stessi ordini che la Cassazione ha ritenuto illegittimi?

Terzo. Una volta che una nave abbia fatto approdo in un porto italiano, tutti i salvati, indipendentemente da qualsiasi condizione personale e da qualsiasi accordo di ridistribuzione, debbono essere sbarcati e la loro condizione deve essere esaminata individualmente per capire se intendono chiedere protezione o se hanno altro titolo a restare sul territorio nazionale. Ogni scelta diversa costituisce respingimento collettivo vietato dall’art. 4, protocollo 4 della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo (CEDU). Nell’unico caso in cui si è potuto dimostrare che l’Italia (regnante Berlusconi ) aveva riportato collettivamente dei migranti in Libia, siamo stati condannati (siamo, tutti noi italiani) dalla Corte di Strasburgo a risarcire agli interessati il danno per averli esposti a trattamenti inumani e degradanti (sentenza CEDU Hirsi 23.2.2012) : ed è davvero così irrilevante, per la nostra coscienza civile, finire nuovamente sotto processo per aver violato “i diritti dell’uomo”?

Quarto. Nessuna norma prevede quindi che, dopo una operazione di salvataggio, la nave debba sbarcare i sopravvissuti nello Stato di cui ha la bandiera; e nessuna norma prevede che la domanda di protezione possa o debba essere presentata sulla nave in modo da radicare nello Stato di bandiera la competenza all’esame della domanda e il conseguente obbligo di “gestire” il richiedente nel tempo necessario a tale esame: non a caso, i politici che vanno sbandierando questa soluzione non riescono a indicare una norma di riferimento. Non solo: l’art. 26 Dlgs 25/2008 prevede che “La domanda di asilo è presentata all’ufficio di polizia di frontiera ovvero alla questura competente per il luogo di dimora”. Peraltro, è ovvio che non potendo lo Stato italiano stabilire cosa deve fare il comandante (ad es.) di una nave tedesca, se si volesse introdurre una competenza di questo genere ciò potrebbe avvenire solo per accordo a livello dell’Unione: e tale accordo oggi non c’è.

Sarebbe quindi bello se almeno su questi punti vi fosse un consenso minimo dal quale ripartire per una pacata discussione tra parti politiche e tra Stati.
Ma tale consenso non c’è e non ci sarà, se è vero che già ora in un atto emesso dalla più alta autorità amministrativo (il DM 4.11.2022 del Ministro Piantedosi) sta scritto a chiare lettere esattamente l’opposto: scendano “i fragili” e gli altri se ne tornino in mezzo al mare. Dimenticando non solo il senso di umanità, non solo la legalità, non solo la ragionevolezza, ma persino la saggezza del Qoelet: c’è un tempo per salvare e un tempo per esaminare le domande di asilo, per distribuire, per rimpatriare. Ma prima viene il tempo di salvare, perché i morti non fanno domande.

 

 

Crediti foto: Civa61CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

  • Alberto Guariso

    Avvocato, in precedenza ha lavorato come funzionario sindacale presso la CISL di Milano.