Trovo che l’articolo di Lucetta Scaraffia apparso sulla Stampa del 2 ottobre scorso ponga efficacemente un problema rilevante di per sé e altresì dotato di una significativa valenza politica. La riflessione prende le mosse da un fatto innegabile ovvero la progressiva centralità della questione dei cosiddetti diritti civili nella visione e nei programmi della sinistra. Della loro difesa e della loro espansione. Al punto da farne una questione identitaria, alla stregua – per adottare una formula a suo tempo cara alla stagione del cardinale Ruini e del suo cattolicesimo politico ma utilizzata in senso esattamente opposto – di “principi non negoziabili”. Di cosa si tratta in concreto? Gender, famiglie al plurale, unioni omosessuali, aborto, fine vita, utero in affitto. “I nuovi diritti – osserva la Scaraffia – sono stati regolarmente illustrati come indiscutibili passi in avanti sulla via del progresso, privi di qualsiasi aspetto problematico, quasi alla stregua di verità autoevidenti”. Soprattutto a sinistra. Merita notare che, secondo lo schema concettualizzato da Bobbio, un tempo la sinistra semmai qualificava il proprio profilo identitario con riguardo ai diritti sociali e del lavoro e conseguentemente informava le sue politiche alla lotta alle disuguaglianze. Questa recente evoluzione della cultura della sinistra fattasi più comprensiva della sensibilità per i diritti civili può essere considerata un guadagno. Una giusta consapevolezza della inscindibilità, della intima connessione tra diritti sociali e diritti civili. Specie quando si tratta di affermare un principio di non discriminazione nei confronti di minoranze. Un principio che, a sua volta, può essere letto come l’altra faccia del principio dell’uguaglianza.

Dove sta dunque il problema che pone la Scaraffia? Lo riassumiamo a modo nostro segnalando talune criticità. La prima è quella della sproporzione. Dell’enfasi sui diritti civili a discapito della sollecitudine per i diritti sociali. Difficile negare che, da tempo, l’egemonia di una cultura liberale e libertaria che ha fatto breccia anche a sinistra abbia avuto un doppio effetto: depressivo per i diritti sociali a tutto vantaggio di una enfatizzazione dei diritti di libertà individuale. La seconda, la più decisiva: un deficit di discernimento, cioè della cura di selezionare e distinguere tra diritto e diritto e, più in radice, tra ciò che è effettivamente diritto in capo alla persona e ciò che non necessariamente lo è. Un vaglio che chiama in causa criteri di carattere etico-antropologico che non possono essere pretermessi in un pubblico confronto dentro una società pluralistica. Terzo: il suddetto vaglio dovrebbe considerare la radice culturale di questo o quell’asserito diritto civile nel quale entra in gioco la dialettica tra la persona come individuo e la sua immanente relazionalità. Una dimensione, questa, cui una sinistra, sia laica che cattolica, non può essere insensibile. In sede di approfondimento, una “sinistra colta” dovrebbe interrogarsi anche sul nesso tra un certo mainstream in tema di diritti e gli sviluppi del tardocapitalismo, con i corposi interessi economici di gruppi e organizzazioni industriali e commerciali. In quarto luogo, una concezione estensiva e non criticamente vagliata dei diritti civili mette a disagio la componente cattolico-democratica della sinistra. La laicità e l’abito dialogico che connotano tale componente del cattolicesimo politico non la esonerano dal dovere di discutere e criticare un certo “dogmatismo” dei diritti individuali. Il riconoscimento, anche da parte cattolica, dei limiti dell’appello alla dottrina del diritto naturale nel forgiare la legislazione – un “arma spuntata” notò lo stesso Ratzinger in un celebre colloquio con Habermas – non dovrebbe condurre a misconoscere la dialettica natura-cultura, una circolarità di quel binomio in entrambe le direzioni. Infine, una preoccupazione di ordine politico. La koinè forgiata dai media riflette una sensibilità certamente dominante nelle élite che ad essi hanno più facile accesso. Non è altrettanto sicuro che quelle idee e quei costumi siano altrettanto diffusi tra i ceti popolari. Scrivendo una settimana a valle delle elezioni, Scaraffia così concludeva: “probabilmente la sinistra paga anche la leggerezza di avere dato per scontato che la maggioranza del paese, a cominciare dalle classi popolari, fosse d’accordo con quanto predicato dalle élite”. Con il risultato di acuire in esse, anche per questa via, quel senso di distanza e persino di estraneità rispetto alle rappresentanze di una sinistra dai tratti socialmente circoscritti ed elitari. Una certa enfasi celebrativa dei diritti non adeguatamente elaborati è, insieme, tra gli indicatori e le cause della nota frattura tra il popolo e la sinistra ztl.

 

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  • Franco Monaco

    Pubblicista, già presidente dell’associazione «Città dell’uomo» e parlamentare della Repubblica; fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.