Il 4 settembre 2022 i cileni sono andati alle urne per il referendum sulla nuova Costituzione. Sono passati 33 anni dal plebiscito del 30 luglio del 1989 con cui il 91,25% dei votanti (quasi il 94% degli aventi diritto) approvò la riforma della Carta costituzionale del 1980, tuttora vigente, nove mesi dopo il trionfo del No (con il 55,99% dei voti) al referendum del 5 ottobre precedente sulla possibile prosecuzione del governo di Augusto Pinochet. Quel doppio voto pose fine alla lunga stagione della dittatura militare instauratasi con il golpe dell’11 settembre 1973 che fece del Cile non solo un paese autoritario e militarizzato, irrispettoso dei diritti umani, ma anche un laboratorio di esperimenti economici e finanziari di matrice neoliberista. Dopo quel voto e la fine del mandato di Pinochet (11 marzo del 1990) si aprì la stagione della lunga transizione che avrebbe visto governare due presidenti democratico-cristiani, Patricio Aylwin (1990-1994) ed Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994-2000), e il democratico Ricardo Lagos (2000-2006), prima dell’alternanza tra la socialista Michelle Bachelet (2006-2010 e 2014-2018), oggi Alta commissaria Onu per i diritti umani, e l’imprenditore Sebastían Piñera (2010-2014, 2018-2022), leader del partito di destra Rinnovamento nazionale.
Il nuovo plebiscito è giunto a meno di due anni dal referendum del 25 ottobre 2020 con cui il 78,28% dei votanti (questa volta solo poco più della metà degli aventi diritto) ha dato il proprio sostegno all’avvio di un processo di riforme costituzionali per la stesura di una nuova Carta che rescindesse definitivamente i legami con il passato. Su quel voto pesarono le violente proteste, la repressione e gli scontri di piazza che avevano segnato il paese sudamericano negli ultimi mesi del 2019. Una mobilitazione scaturita solo in apparenza improvvisamente, in uno scenario segnato da profonde spaccature sociali e generazionali, contro le politiche iperliberiste del governo Piñera e presto sfociata in una più vasta richiesta di riforme strutturali. La pressione delle piazze ha quindi costretto le forze politiche a ricercare una via negoziata, con la firma dell’Acuerdo por la paz y una nueva Constitución, approvato per legge alla Vigilia di Natale.
Tra il plebiscito del 2020 (“de entrada”), che optò per l’elezione di una Convenzione costituzionale, e quello del 2022 (“de salida”) molte cose sono però mutate: per l’impatto della pandemia, che ha inciso pesantemente sulle esportazioni cilene, ma soprattutto per la vittoria alle presidenziali di fine 2021 del trentaseienne ex leader studentesco Gabriel Boric, impostosi al ballottaggio (con il 55,87%) sul candidato di destra José Antonio Kast. In un clima di forte polarizzazione politica, quel voto ha marginalizzato le coalizioni moderate: il vecchio centro-sinistra, Nuevo pacto social, riorganizzatosi nell’alleanza tra democratico-cristiani, socialisti e liberali a sostegno di Yasna Provoste, e il centro-destra di Piñera, Chile podemos más, che ha radunato diverse forze liberiste intorno alla candidatura di Sebastián Sichel. Le elezioni legislative e il secondo turno delle presidenziali hanno confermato l’avanzata dell’alleanza di sinistra, Apruebo dignidad (Convergenza sociale, verdi, comunisti…) e della coalizione della destra più radicale, Frente cristiano social, di Kast. Il successivo insediamento alla presidenza (marzo 2022) di Boric, sembrò suggellare il nuovo vento che sta attraversando l’America latina, a pochi mesi dalla vittoria di Petro in Colombia, in attesa del voto brasiliano di fine di ottobre (che avrebbe poi premiato Lula).

Situazione complessa e questioni irrisolte

Eppure, la situazione si è rivelata più complessa del previsto per i fautori della svolta riformista e proprio il referendum di settembre avrebbe finito per risollevare una serie di questioni irrisolte, aprendo diverse incognite sul futuro del nuovo governo. In parte ciò rimanda alla gestione del processo di riforma costituzionale. La scelta di Boric di appoggiare esplicitamente quella che lui stesso ha definito la Costituzione più progressista del mondo avrebbe finito per riaccendere paure che si pensavano sepolte. I lavori dei 155 membri della Convenzione costituzionale (78 uomini e 77 donne con 17 seggi riservati ai popoli originari), eletti nel maggio del 2021, si sono protratti per un anno, dal 4 luglio del 2021 al 4 luglio del 2022, in un clima che è però rimasto fortemente polarizzato. La nuova Carta, suddivisa in 11 capitoli e 388 articoli, con un apparato di norme transitorie, ridefiniva nei principi fondamentali (art. 1-16) i caratteri dello Stato, riconfigurandone la dimensione plurinazionale, esaltandone il ruolo sociale, la difesa esplicita delle istituzioni democratiche e dei diritti umani (art. 17-126), al pari della funzione pubblica e del sistema tributario (art. 165-186). Pur confermando il sistema presidenzialista, sono stati consolidati i meccanismi di balance of power (art- 251-306) e le garanzie di partecipazione politica (art. 151-164), mentre venivano introdotti una serie di elementi innovativi: dall’uguaglianza di genere al diritto all’aborto, dal pieno riconoscimento delle popolazioni indigene alla riorganizzazione territoriale e regionale, fino all’affermazione del principio della responsabilità ecologica (gli art. 127-150. assegnano la titolarità di diritti alla natura e agli animali).
La dimensione fortemente progressista della Carta e, in particolare, il riconoscimento dello Stato plurinazionale (sulla scia di altre Costituzioni latinoamericane riviste nel nuovo millennio, a partire da quella boliviana) ha sollevato le proteste della destra cilena, sensibile alla difesa dell’impianto nazionalista e preoccupata dalla riorganizzazione dei sistemi territoriali. In particolare, è emerso un netto rifiuto delle prerogative assegnate ai popoli indigeni, a cominciare dai mapuche del sud, a lungo associati a terroristi nell’immaginario nazionalista, in una regione fortemente militarizzata e sulla scorta di un vecchio pregiudizio razziale. Il Cile ha finito così per sperimentare per mesi una doppia velocità tra i lavori della Convenzione e l’azione dell’uscente governo Piñera. L’aperto sostegno dato alla nuova carta da Boric, insediatosi alla presidenza solo nel marzo del 2022, quattro mesi prima della fine dei lavori della Costituente, ha finito per acuire le tensioni.
Queste si sono riflesse inevitabilmente nel clima elettorale sperimentato dal paese in vista del referendum.
Mentre le destre cavalcavano le paure, i moderati si spaccavano, come confermato dalle crescenti voci di dissenso interno rispetto alla decisione di democristiani e socialisti di appoggiare il sì alla Carta. Gli ultimi sondaggi davano un vantaggio piuttosto netto (10%) ai sostenitori del rechazo (il No alla Costituzione).
Un’inchiesta di “El País” ha evidenziato come gli elettori di destra che hanno votato per Kast nel 2021 si siano tutti schierati per il No, mentre cresceva il tasso di incertezza tra i sostenitori dei partiti di centro-destra e centro-sinistra, perfino tra gli elettori di Boric.
Il plebiscito nazionale del 4 settembre 2022, tenutosi simbolicamente nel 52° anniversario delle elezioni che aprirono la strada all’assunzione del potere da parte di Salvador Allende, ha quindi confermato la diffidenza dell’elettorato cileno nei confronti della nuova Carta riformista, andando ben oltre le previsioni dei sondaggi: il Rechazo ha infatti ottenuto il 61,87% dei voti, contro il 38,13% dell’Apruebo. Il dato che più colpisce è l’alta partecipazione (85,8%). Indubbiamente hanno pesato in campagna elettorale i richiami nazionalisti alla difesa della Patria unica ma ha pesato anche la fiducia dei cileni nell’impianto iperliberista esistente. Boric ha riconosciuto la sconfitta e gli errori commessi, e, a due giorni dall’esito del referendum, ha attuato un rimpasto nel suo esecutivo, mentre si dimettevano i presidenti del Pdc, Felipe Delpin, e del Partido repubblicano, Rojo Edwards.
Una disfatta che a molti ha ricordato l’esito del referendum sugli accordi di pace colombiani del 2016. In quel caso il presidente Juan Manuel Santos riuscì a gestire comunque una transizione efficace. Ora tocca a Boric affrontare una prova di maturità politica. Nelle settimane successive al plebiscito, l’ex sindaco di Santiago, Carolina Tohá, del Partito per la democrazia, ha invitato i cileni a non bruciare lo spirito di rinnovamento costituente scaturito dal referendum del 2020 e lo stesso presidente si è detto pronto a lavorare per una revisione di parti sostanziali del testo della Carta, facendosi promotore di un dialogo nazionale in seno al Congresso. Dall’efficacia della riforma costituzionale passa molto del prossimo futuro del paese sudamericano.

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  • Massimo De Giuseppe

    Professore di Storia contemporanea, Università IULM - Milano. Direttore del Centro di ricerca Euresis/IULM.