L’ossessione per il cambiamento della legge elettorale è uno dei sintomi più evidenti della fragilità del sistema politico nella cosiddetta “seconda repubblica”, che nasce proprio in coincidenza con il superamento del proporzionale e l’introduzione nel 1993 del primo sistema maggioritario, il Mattarellum, adoperato per la prima volta nelle elezioni politiche dell’anno successivo (e poi ancora nelle successive consultazioni del 1996 e del 2001).
Cambiamenti continui, con risultati contraddittori
Il tema si è riproposto costantemente negli anni successivi, a partire dal fallito tentativo referendario del 1999 per abolire la quota proporzionale del Mattarellum. La contesa sulla legge elettorale è proseguita con l’approvazione del cosiddetto Porcellum di Calderoli, ad opera del centrodestra, prima delle elezioni politiche del 2006. Questo sistema è stato poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta nel dicembre del 2013, dopo che esso era stato adoperato in tre elezioni politiche (2006, 2008, 2013). Il Porcellum è stato sostituito dall’Italicum di Renzi, approvato nel 2015, ma mai utilizzato perché dichiarato incostituzionale nel gennaio del 2017 e sostituito nello stesso anno dal cosiddetto Rosatellum, il sistema elettorale attualmente vigente, con il quale si sono svolte le ultime due elezioni politiche (2018 e 2022). Nella “seconda repubblica” nessun sistema elettorale è durato perciò più di tre legislature e l’attuale Rosatellum corre il rischio di avere vita ancora più breve, data l’intenzione dichiarata dalla maggioranza in carica di sostituirlo con l’ennesima nuova legge elettorale.
Se non ci fosse la crudezza dei dati economici, salariali sociali, demografici, educativi a dimostrare in modo inequivocabile quale radicale fallimento per l’Italia sia stata finora la “seconda repubblica”, qualche dubbio su tutta la vasta letteratura politologica che ne ha accompagnato e legittimato la nascita, in nome dei miti fondativi del “maggioritario” e della “democrazia decidente”, dovrebbe essere indotto già dalla impressionante instabilità della legge elettorale, ossia di quella che sarebbe dovuta essere la premessa fondativa del nuovo assetto repubblicano, pur in assenza di un compiuto cambiamento costituzionale.
Peraltro, non si può neppure sostenere che le leggi elettorali introdotte a partire dal 1993 siano state messe in discussione perché rivelatesi di per sé inadatte ad assicurare una maggioranza chiara e a consentire di conoscere il “vincitore la sera delle elezioni”, per usare uno dei mantra della politologia critica del proporzionale, che a partire dagli anni Novanta ha dominato il discorso pubblico. Il Mattarellum è stato archiviato dopo che nel 2001 aveva consentito al centrodestra di conquistare una salda maggioranza parlamentare, il Porcellum viene cancellato dalla Consulta addirittura per il carattere irragionevole del suo premio di maggioranza senza soglia minima (oltre che per le liste bloccate eccessivamente lunghe), mentre il Rosatellum viene ora messo in discussione proprio dalla destra che, grazie ai suoi collegi uninominali, ha ottenuto nel 2022 una schiacciante vittoria in termini di seggi parlamentari, pur essendo rimasto molto al di sotto della maggioranza assoluta dei voti.
La fondazione sbagliata: il maggioritario come toccasana
In realtà, la nevrosi sulla legge elettorale che caratterizza la “seconda repubblica” ha molto a che fare con le promesse tradite di quella che si potrebbe definire la sua fondazione politologica, ossia l’idea piuttosto balzana che si potesse ottenere una rigenerazione del sistema politico e una maggiore efficienza delle politiche di governo con un cambiamento delle regole elettorali di stampo maggioritario. Il fatto che la ricetta sia presto rivelata illusoria non ha portato a riconsiderare le premesse fallaci nell’analisi della crisi della “prima repubblica” proposta dalla politologia dominante, ma ha indotto la ricerca compulsiva della legge elettorale più adeguata a realizzare le promesse della “seconda repubblica”, come se queste davvero potessero essere realizzate. In termini più semplici, il cambiamento della legge elettorale (e, da un certo momento in poi, anche dell’architettura della seconda parte della Costituzione) è diventato per la classe politica il modo per sfuggire ai suoi fallimenti, alla sua inadeguatezza, alla sua incapacità di rendere conto dell’incidenza del vincolo esterno e di ricavarsi al suo interno margini di dignitosa autonomia e di tutela dell’interesse nazionale (a differenza di quanto per larghi tratti avevano saputo fare le vituperate classi dirigenti della “prima repubblica”). In aggiunta a ciò, di volta in volta le maggioranze di turno, pur rimanendo ancorate al dogma maggioritario, sono cadute nella tentazione di disegnare il sistema elettorale più favorevole alle proprie convenienze, peraltro fallendo sistematicamente questo calcolo.
Per la verità, un varco per fuoriuscire dalle astrazioni politologiche che hanno egemonizzato il discorso pubblico della “seconda repubblica” si era creato dopo la bocciatura popolare della riforma della Costituzione Renzi-Boschi nel 2016, che, in collegamento con l’Italicum, aspirava proprio a essere la consacrazione sul piano costituzionale dell’impianto maggioritario rafforzato alla base del modello del “Sindaco d’Italia”. Dopo la larga vittoria del No al referendum costituzionale, si erano determinate le condizioni politiche per tentare il passaggio a un sistema elettorale proporzionale sul modello tedesco, sia prima dell’approvazione del Rosatellum nel 2017, quando il tentativo fu affossato da franchi tiratori preoccupati che la legislatura si accorciasse di sei mesi, sia nel 2019, al momento della nascita del governo Conte II. In quest’ultimo caso, nessuna spiegazione minimamente razionale è stata trovata sul perché i gruppi parlamentari di PD e LeU abbiano votato allora a scatola chiusa il taglio del numero dei parlamentari senza richiedere la contestuale approvazione della nuova legge elettorale proporzionale, su cui pure tutte le forze della nuova maggioranza di governo, compreso il M5S, si dichiaravano d’accordo.
Meloni punta al ritorno al Porcellum?
Ora la giostra potrebbe ripartire con il tentativo della presidente del Consiglio in carica di imporre agli alleati di governo un sostanziale ritorno al Porcellum, corretto nei due aspetti su cui era intervenuta la censura della Corte costituzionale: l’assenza di una soglia minima di coalizione per l’attribuzione del premio di maggioranza e l’eccessiva lunghezza delle liste bloccate di candidati. Siccome l’ipotesi iniziale di prevedere l’indicazione del candidato-premier sulla scheda sembra scontrarsi con le ovvie obiezioni sulla lesione delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica, si starebbe valutando il recupero della soluzione, escogitata a suo tempo da Calderoli, dell’obbligo per i partiti alleati di indicare il capo della coalizione all’atto del deposito del programma comune. Il premio di maggioranza scatterebbe se la coalizione vincente raggiunge almeno il 40% dei voti validi. I collegi del Rosatellum verrebbero aboliti e la scelta dei candidati avverrebbe o con un sistema che prevede il capolista bloccato e il resto della lista con preferenze oppure, più probabilmente, con listini corti bloccati (come già avviene ora nella quota proporzionale del Rosatellum). L’indicazione preventiva del candidato-premier non riscuote ovviamente, nelle condizioni date, l’entusiasmo di Forza Italia e Lega. In aggiunta, quest’ultima vede molto male l’abolizione dei collegi uninominali, a cui è legata una quota non trascurabile della propria attuale rappresentanza parlamentare tra Lombardia e Veneto. Si vedrà se il partito di maggioranza relativa riuscirà a piegare queste resistenze e a imporre la nuova (vecchia, in realtà, nella sostanza) legge elettorale. La Meloni sembra determinata a sfidare anche un’altra regola che si è consolidata nella “seconda repubblica”, quella per la quale lo schieramento che promuove il cambiamento della legge elettorale pochi mesi prima del voto esce poi sconfitto alle elezioni successive. È successo al centrosinistra nel 1994 con la prima applicazione del Mattarellum, al centrodestra nel 2006 con il debutto del Porcellum e di nuovo al centrosinistra nel 2018 con l’introduzione del Rosatellum. Inoltre, a differenza di quanto ipotizzano diversi retroscena giornalistici e di quanto accadde nel 2005 al momento dell’approvazione del Porcellum, se il centrodestra forzerà, stavolta troverà un’opposizione vera, il che renderà l’operazione più complicata.
La complicazione del Senato e i “premi” regionali
A parte l’impressionante deficit di inventiva che porta il centrodestra a riesumare una legge elettorale concepita oltre 20 anni fa, che già prima dell’intervento della Consulta era apparsa piena di difetti, due aspetti appaiono davvero singolari in questo ennesimo capitolo della saga sulla legge elettorale. Sorprende che non siano stati finora centrali nel dibattito pubblico sul tema.
Il primo, più tecnico, riguarda il fatto che non solo il bicameralismo perfetto è vivo e vegeto, ma che la Costituzione prevede ancora che il Senato venga eletto su base regionale. Sarebbe perciò impossibile al Senato attribuire il premio su base nazionale e bisognerebbe tornare alla cervellotica soluzione dei premi su base regionale del Porcellum, che è la ragione per la quale quel sistema non ha garantito una maggioranza certa in due delle sue tre applicazioni, nel 2006 e nel 2013. La principale motivazione che viene avanzata per cambiare la legge elettorale risulta così minata alla radice: non è affatto detto il Porcellum 2.0 garantisca “il vincitore la sera delle elezioni”. Statisticamente con il Porcellum ciò è avvenuto una volta su tre, con il Rosatellum una volta su due. Si aggiunga che nel Porcellum 2.0 nemmeno l’elemento della convenienza di parte sembra essere così sicuro. Potrebbe perciò ripetersi il fenomeno che si è visto già accadere in passato: l’eterogenesi dei fini, per cui si pensa di ricavare un vantaggio da un cambiamento che viene poi sfruttato dai propri avversari. Si pensi all’abolizione dei collegi elettorali: non è affatto detto che oggi l’elettorato potenziale del centrosinistra sia più ‘coalizionale’ di quello del centrodestra, a differenza di quanto accadeva magari negli anni Novanta, e che quindi il voto a un candidato unico nei collegi avvantaggi il campo progressista.
Cambiare ancora la legge elettorale o cercare nuova legittimazione della politica?
Il secondo, più politico, riguarda la narrativa con la quale la presidente del Consiglio sta cercando di motivare la necessità del cambiamento della legge elettorale (e della riforma costituzionale del premierato). Il Rosatellum non viene messo in discussione per i suoi reali difetti, ma perché non garantisce la certezza assoluta che uno schieramento abbia la maggioranza assoluta dei seggi. Anche se non esclude affatto questa possibilità, come dimostra il risultato del 2022, che ha consentito la nascita di quello che probabilmente diventerà il governo più lungo della storia repubblicana. Al termine di questa legislatura, la Meloni certo non si potrà lamentare del fatto che le vigenti regole elettorali e istituzionali non le abbiano consentito di governare con una maggioranza ampia e stabile. Eppure anche lei è indotta ad aggrapparsi alla via di fuga politologica, tipica di larga parte della classe politica della “seconda repubblica”: “datemi altre regole e io risolleverò l’Italia”. È dubbio, però, gli italiani, dopo oltre trent’anni di diversivi politologici e dopo cinque anni di stabilità al potere del più lungo ma anche più inutile governo della storia repubblicana, si convincano che il problema siano le regole che non assicurano “il vincitore la sera delle elezioni” e la sua blindatura a Palazzo Chigi per l’intera legislatura.
Piuttosto, in una situazione in cui l’astensionismo continua a galoppare, sarà il caso di lasciar perdere una volta per tutte le astruserie politologiche su cui si è retta la legittimazione della “seconda repubblica” e capire quali siano le condizioni concrete per ricostruire un minimo di autonomia politica e culturale della classe politica. In assenza di ciò, la totale subalternità al “pilota automatico” del vincolo esterno farà apparire ormai a sempre più elettori (già ora siamo quasi alla metà degli aventi diritto) l’alternanza dei governi assicurata dal maggioritario come una semplice sostituzione di ceto politico, nell’invarianza sostanziale dell’indirizzo politico su tutti i temi fondamentali.
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