Adesso che si è posato il polverone politico attorno all’avventura della Flotilla ed è calata la tensione attorno al destino dei protagonisti (e dei beni di soccorso che trasportavano verso la striscia di Gaza), possiamo permetterci di ripensare un’immagine circolata molto nel giorno dell’abbordaggio da parte dei militari dell’Idf: mi riferisco a quella dei naviganti con giubbotti salvagente e le mani alzate, in attesa di essere catturati e trasportati nelle prigioni israeliane.
Certo, le mani levate possono anche essere segno di resa quando la forza del nemico non dà scampo, ma difficile non leggere in quella immagine anche il segno e il senso di una iniziativa di pace e di soccorso nel momento in cui le armi, con il loro immenso potenziale distruttivo, sembravano (e sembrano ancora oggi) l’unico linguaggio possibile.
Controcorrente, ma realisticamente
Curioso che la destra, invece di valorizzare quella immagine, abbia preferito accomunarla insensatamente a quelle di qualche sfasciacarrozze durante le manifestazioni Propal, quando invece sarebbe stato interesse di tutti marcare le differenze e la peculiarità di quella iniziativa, umanitaria e politica insieme, certamente collocata nell’ambito degli interventi di pace e forse anche nell’area dell’azione nonviolenta.
Ecco, appunto: una delle domande che quella immagine ci lascia è se in questo gran rimbombare di cannoni resti ancora qualcosa di quella parola (nonviolenza): non solo sul piano della azione (ed è questo sicuramente il caso della Flotilla) ma anche sul piano della teoria generale, della costruzione di forme di difesa popolare non violenta sostitutive degli eserciti, come anni fa si pensava parlando di “caschi bianchi”, di interposizione, disobbedienza civile, di obiezione di coscienza e così via.
A prima vista, la risposta non può che essere negativa: non resta nulla e il grido Si vis pacem para bellum risuona vincitore in tutte le arene, da quella focosa trumpiana a quella solo apparentemente più pacata del parlamento europeo; nell’uno e nell’altra arena non cambia granché se non l’aggressività dei toni e la misura, comunque spropositata, delle risorse investite nel ri-armo (vocabolo beffardo; come se ci fosse mai stata una fase di “dis-armo”).
Eppure, come c’è stata la grande spinta emotiva che ha portato decine di migliaia di persone a scendere in strada nelle grandi manifestazioni per Gaza o alla Perugia-Assisi, c’è anche sicuramente qualche scampolo di quella elaborazione che potremmo provare a recuperare e conservare, in attesa di tempi migliori.
La voce dei morti nelle guerre
Uno, ad esempio, è la banalissima considerazione che i morti non hanno progetti, idee politiche, preferenze per l’Occidente o per i suoi nemici: sono morti e basta. Men che meno hanno un’opinione sul grado di proporzione o sproporzione nell’uso di quella forza che ha posto fine alla loro vita.
“Proporzione” è una parola nobile, che esprime saggezza e bilanciamento tra diritti e interessi diversi, parola decisiva per costruire una convivenza pacifica: ma in questi mesi è stata storpiata da chi la usava perché non aveva il coraggio di condannare senza se e senza ma i bombardamenti sui civili di Gaza (“Israele sbaglia perché la reazione è sproporzionata”): lasciando così senza risposta la domanda di come dovrebbe essere calcolato il numero di vittime “proporzionato” all’obiettivo perseguito e alla violenza subita.
Ebbene, guardare la guerra dal punto di vista dei morti è una delle eredità del pensiero nonviolento che dovremmo provare a ravvivare, per non abituarci a parlare di guerra (anche atomica) come di una ipotesi plausibile: l’idea, cioè, che c’è un principio di assolutezza nella difesa di ogni singola vita, perché “ogni vita conta” e dunque ogni singola vita che si interrompe a causa del gioco della guerra è sempre un costo sproporzionato.
La prevaricazione della forza sul diritto
Una seconda “eredità” di quell’immagine da valorizzare è sicuramente la convinzione che le relazioni tra i soggetti e tra gli Stati possano essere regolate dalla forza del diritto e non dal diritto del più forte. L’immagine dei naviganti con le mani levate ci ha detto molto su questo punto perché, a ben vedere, erano proprio loro ad essere portatori del diritto e della legalità, mentre non lo erano i militari che abbiamo visto salire sulle barche in assetto di guerra, come rappresentanti dello Stato (e lo Stato dovrebbe essere, per definizione, il detentore dell’uso legittimo della forza). È nota la discussione tra giuristi sulla legittimità o meno del blocco navale imposto da Israele a partire dal 2007 e sulla legittimità o meno dell’abbordaggio, in acque internazionali, di navi battenti bandiere di altri Stati, che si apprestavano a un “passaggio inoffensivo” come era quello della Flotilla.
Non si vuol qui riprendere quella discussione; ci basta considerare l’esistenza di un fondatissimo dubbio sulla legittimità di quell’abbordaggio e considerare che quella azione si inserisce in un contesto di clamoroso e manifesto attacco alle regole del diritto internazionale: cioè a quelle regole che ci eravamo dati nella seconda metà del secolo scorso, nella convinzione che il diritto (primo fra tutti, appunto, il diritto internazionale) potesse essere espressione di valori superiori di convivenza e di dialogo. Oggi, nell’epoca in cui i criminali di guerra vengono ricevuti sui tappeti rossi e le decisioni della Corte penale internazionale vengono considerate carta straccia, recuperare il senso di quelle regole è una eredità del pacifismo che dovremmo provare a ravvivare.
Da Gaza a New York: oltre la retorica dei confini
Vi sono poi altre due immagini che si pongono in continuità con la “resa” della Flotilla. Sono, in realtà, parole più che immagini, ma devono essere viste prima ancora che ascoltate, perché sono state accompagnate da un sorriso, non ironico, non beffardo, ma pacifico e al contempo deciso; come pacifici e decisi devono sempre essere i fautori della azione nonviolenta.
Sono due frasi pronunciate dal neosindaco di New York, Zohran Mamdani, durante il “comizio della vittoria” e molto circolate in rete. La prima dice: “New York è una città costruita dagli immigrati, che resterà aperta agli immigrati”. È ironia troppo facile affermare che qualunque politico, pronunciando in Italia o in Germania una analoga frase, si sarebbe garantito una immediata e sonora sconfitta elettorale. Eppure la frase è stata detta e ha entusiasmato invece di spaventare; soprattutto, per quanto riguarda il nostro discorso, è stata pronunciata nel momento in cui la guerra – quella di Ucraina, ma anche quella di Gaza (e qualcosa di analogo si potrebbe dire di quella, silenziosa, in Cisgiordania) – torna a diventare una guerra di territorio e di confine, di carri armati e fanterie che, non diversamente dagli alpini nelle trincee dell’Adamello o del Carso, contendono brandelli di terreno come se spostando un po’ più in la il confine e facendolo più profondo ci si potesse garantirsi l’identità collettiva e la pace.
Vi è quindi, oggi più di ieri, una continuità tra la retorica bellicista e la scelta di marcare e approfondire i confini, cosi come c’è una continuità di segno opposto tra il pacifismo e il tema dell’immigrazione; sicché ogni volta che attenuiamo i confini difendendo il diritto di asilo, il diritto a veri ingressi per lavoro, il diritto all’unione delle famiglie migranti e, in una parola, il diritto alla mobilità mettiamo anche un piccolo mattone alla costruzione di una cultura con meno muri e dunque a una cultura nonviolenta. Spiace che questo non sia compreso da qualche forza politica (prima fra tutti i Cinque Stelle) che vorrebbe qualificarsi come pacifista ed è poi invece così fredda sul tema dell’emigrazione.
E infine vi è poi un’ultima parola/immagine, sempre tratta dal comizio di Mandami, che merita di restare a lungo nelle nostre menti. Quella in cui il neosindaco ha scandito “turn the volume up”, alza il volume, ascolta. Certo, lo ha detto rivolgendosi polemicamente a Trump. Ma forse l’invito vale per tutti noi. Alziamo il volume, drizziamo le orecchie. Forse, da qualche parte c’è qualcosa d nuovo che lentamente si mette in marcia.
(Foto: Codas – Own work, wikimedia.org)

