È un’evidenza indiscutibile. I sistemi di intelligenza artificiale (IA) sono largamente presenti e operativi nella vita quotidiana. Rappresentano un riferimento ineludibile in un neoumanesimo digitale che, a fronte di innegabili risultati positivi, pone anche complessi interrogativi.
Uno tra tutti e forse principale. Quale confronto, quale conflitto tra una visione del mondo governata da visioni meccanicistiche a fronte del personalismo comunitario? È ancora pensabile riconoscere all’essere umano la titolarità di una morale libera e responsabile?
Una intelligenza non autonoma
Il termine “intelligenza” non designa qualità propriamente umane conferite alle macchine ma descrive “funzioni” che simulano artificialmente comportamenti propri dell’essere umano. La questione non riguarda solo una simulazione, ovvero la capacità di ingannarci apparendoci umana, ma l’evidenza che il genere e l’estensione della conoscenza di cui le macchine sono fornite dipende da una nostra delega. Appunto, una delega tecnologica di funzioni. Quando parliamo di intelligenza, coscienza, emozioni o lavoro delle macchine usiamo un linguaggio metaforico, attribuendo loro qualità di cui sono prive. Con un lessico antropomorfico di cui l’IA, però, non comprende la semantica.
Il tipo di lògos di cui sono dotate è costituito da algoritmi, sequenze di comandi da seguire per l’esecuzione di determinate operazioni. L’idea di copiare il funzionamento del cervello e della mente umana attraverso l’IA al di fuori del contesto delle relazioni, dell’ambiente e della cultura in cui ciascuno è immerso, ha condotto a delle semplificazioni e a degli errori di valutazione.
Ecco il malinteso di fondo: ritenere che l’agire artificiale significa comportamento intelligente. C’è una separazione tra capacità di risolvere un problema ed esigenza di essere intelligenti nel farlo. Altro malinteso di fondo è assegnare autonomia alle macchine, vale a dire assegnare una capacità di agire secondo valori morali. Ebbene le macchine con IA sono automatiche nell’apprendimento ma non sono autonome ovvero non sono dotate di un sistema decisionale autonomo. Sono di supporto e completamento alle decisioni e alle azioni umane.
Le innovazioni tecnologiche sono così rapide che nel vocabolario del digitale si comprendono nuovi termini di riferimento a descrizione dell’intelligenza. Ad esempio, oggi parliamo non solo delle ormai già ben note e diffuse intelligenze generative (Chapt-GpT, MidJourney, Codex, …) ma di intelligenza organoide. La convergenza tra biologia e tecnologia digitale sta delineando nuovi orizzonti per il futuro dell’umanità. L’Intelligenza Biologica Sintetica (Synthetic Biological Intelligence, SBI) e l’Intelligenza degli Organoidi (Organoid Intelligence, OI) stanno guidando questa trasformazione, fondendo sistemi biologici viventi con strutture computazionali (biocomputing) creando opportunità rivoluzionarie in vari settori, in particolare nella medicina e nella ricerca. Questi modelli offrono prospettive senza precedenti sulla biologia umana e sui meccanismi delle malattie così nel testare l’efficacia e la tossicità dei farmaci in contesti specifici per il paziente, avvicinandoci a una medicina veramente personalizzata. Il potenziale, inoltre, di poter modellare malattie rare e disturbi genetici, che spesso mancano di analoghi efficaci negli animali o in vitro, ne sottolinea il valore sociale.
L’umanocentrismo come àncora necessaria
Emerge la necessità di abitare e governare con prudenza e responsabilità l’innovazione tecnologica senza catastrofismi o trionfalismi. È un processo che richiama ancora una volta la necessità di porre l’uomo al centro. Usando terminologia appropriata (human-centric e human-centred). È il fine che qualifica eticamente l’innovazione tecnologica. Si richiede consapevolezza, discernimento, corresponsabilità.
Come ha ricordato Papa Leone XIV ai Vescovi della CEI, “ci sono le sfide che interpellano il rispetto per la dignità della persona umana. L’intelligenza artificiale, le biotecnologie, l’economia dei dati e i social media stanno trasformando profondamente la nostra percezione e la nostra esperienza della vita. In questo scenario, la dignità dell’umano rischia di venire appiattita o dimenticata, sostituita da funzioni, automatismi, simulazioni. Ma la persona non è un sistema di algoritmi: è creatura, relazione, mistero”.
Ecco l’umanocentrismo che non significa certo neo-luddismo, piuttosto rappresenta la tensione verso l’altro (non verso “essa” macchina). Nella cooperazione sì con i sistemi di IA ma nella consapevolezza del proprio libero arbitrio, nella ponderazione delle circostanze, nella possibilità di distinguere il bene dal male. A fronte di IA che nella elaborazione algoritmica non hanno autoconsapevolezza, non conoscono tensione morale. Non provano empatia. Ascoltano ma non sentono. Non sono, insomma, intelligenze relazionali. Guardano ma non vedono l’altro né scorgono l’oltre. Perché “manca loro la vita”.
(Foto di Shubham Dhage su Unsplash)