Il nuovo papa, Leone XIV, ricevendo appena eletto i membri del collegio cardinalizio ha direttamente spiegato la scelta del proprio nome pontificale facendo riferimento a Leone XIII che “con la storica enciclica Rerum novarum affrontò la questione sociale nella prima rivoluzione industriale”. Ricordiamo che papa Pecci (il cui lungo pontificato durò dal 1878 al 1903) fu anche il papa che tutelò il rilancio dell’Ordine di Sant’Agostino, cui Robert Francis Prevost appartiene: ci può essere un legame affettivo evidente. Ma il papa ha citato direttamente l’enciclica fondatrice della cosiddetta «dottrina sociale» della Chiesa, uscita il 15 maggio del 1891. Non era certo un testo rivoluzionario nei contenuti, ma indicava un’attenzione del tutto inedita (peraltro maturata sull’onda di alcuni decenni di sviluppi dei movimenti sociali cattolici in tutta Europa) alla insostenibile condizione storica in cui “un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile”, come incisivamente denunciava il papa. Le soluzioni individuate a questo dramma erano affidate prevalentemente alla buona volontà e alla carità dei protagonisti, anche se si l’enciclica parlava per la prima volta di “giusto salario”, auspicava una cooperazione generale contro la lotta di classe (il socialismo era duramente condannato) e apriva cautamente alla regolazione statuale delle condizioni del lavoro.
Che senso abbia oggi il richiamo a queste vicende di più di un secolo fa, papa Leone lo spiegherà probabilmente poco per volta. Ma alcuni spunti li ha già offerti. Ne cogliamo almeno tre che aprono spiragli già qualificati.
Una ecologia integrale nella crisi contemporanea
Nella messa di inizio pontificato il papa ha notato che – oggi come allora – c’è una ingiustizia dominante che fa appello all’azione dei credenti: “vediamo ancora troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri”. Parlando sempre ai cardinali, nella prima udienza dopo l’elezione, aveva già sostenuto che di questa riflessione ce ne fosse particolarmente bisogno in un momento storico caratterizzato da quella che Francesco chiamava “policrisi”, in cui cioè “convergono guerre, cambiamenti climatici, crescenti disuguaglianze, migrazioni forzate e contrastate, povertà stigmatizzata, innovazioni tecnologiche dirompenti, precarietà del lavoro e dei diritti”.
Il riferimento alle accorate denunce del predecessore è a questo proposito molto importante, perché richiama la riflessione sull’“ecologia integrale” di papa Bergoglio, forse uno dei suoi lasciti maggiori, in quanto ha per la prima volta organicamente intrecciato la cultura sociale alla cultura ambientale. Questo è un filone di riflessione molto importante, che va ulteriormente ripreso e rilanciato. Infatti, la questione ambientale e quella sociale sono state a volte superficialmente contrapposte: chi lotta per la crescita economica e una redistribuzione dei profitti più equa, tende a sottovalutare il tema ambientale come preoccupazione accessoria, semplice “trastullo per i ricchi”, che in passato hanno inquinato e ora voglio rifarsi pulita la coscienza. D’altra parte, chi identifica la novità sconvolgente della crisi climatica e degli effetti dell’“antropocene” sulla natura, si lancia a volte in prospettive di critica frontale all’attività economica e alla produttività umana, in cui sembra che la questione delle sofferenze dei poveri si annacqui in una indistinta empatia con tutti gli esseri viventi.
Diciamo la verità: questo è un nodo che rimane aperto anche nella coscienza cristiana contemporanea. Francesco ha provato a mettere le basi per un suo scioglimento, sostenendo con la Laudato si’ che la crisi ecologica sia frutto della centralità di un “paradigma tenocratico”, collegato alla perdita di caratteristiche umane della vita associata e quindi anche a un’economia del tutto asservita alla produzione di profitto per i più forti. L’iniquità sociale è quindi da considerare parallela al degrado ecologico. C’è una radice comune, identificata nell’individualismo radicale e nel “relativismo pratico”. Quindi egli ha auspicato una “coraggiosa rivoluzione culturale”, avviata appunto con il concetto di “ecologia integrale”. Siccome il principio fondamentale della creazione divina è che “tutto è in relazione”, occorre inserire le diversità e le ricchezze degli esseri umani in trame, luoghi e occasioni e poteri che bilancino ogni creatività (scientifica, economica, artistica) e ogni diversità in un orizzonte umano sempre più ampio e che colleghino le relazioni tra le persone a un perno di bene comune (solidarietà, giustizia tra le generazioni, custodia del creato ecc.) che sia riconosciuto nello scambio e nel dialogo.
Non si trascurerà di notare come tale impostazione si allarghi alla centralità della questione della pace: se tutto deve integrarsi in una prospettiva di bene comune, lo strumento per risolvere le tensioni e i conflitti non potrà essere la violenza bellica. Contrariamente a quanto oggi si sente affermare, la guerra non è naturale per gli esseri umani: può esserlo il conflitto, ma la sua risoluzione può essere affidata ad altri mezzi da quelli violenti. Il tema degli effetti politici di una nuova impostazione culturale di questo tipo è ovviamente del tutto aperta davanti a noi e va rilanciato in tutti i modi possibili. Naturalmente il papa farà il suo, ma è ovvio che questo sia un compito che si allarga molto oltre le sfere di responsabilità del magistero ecclesiale.
Di fronte all’intelligenza artificiale: nuove frontiere della modernità
Una frase rivelatrice di papa Prevost nel colloquio con i cardinali ha messo l’accento su un altro aspetto cruciale delle condizioni del mondo attuale: “Oggi la Chiesa è chiamata a rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro”. Le sfide contemporanee sarebbero cioè da leggere sullo sfondo di un’innovazione tecnologica pervasiva, che è anche causa di trasformazione delle condizioni antropologiche e sociali in cui l’economia si dipana.
Mi pare che ci troviamo anche in questo caso di fronte a un nodo rilevante. Si verificherà presto come la riflessione su questi temi riuscirà ad evitare la superficialità di eventuali preoccupazioni vagamente antimoderne, non assenti tra i cristiani. A volte frutto di incapacità a comprendere il nuovo, a volte frutto di timori tradizionalisti, magari collegati a una lettura biblica dal taglio fondamentalista. Non dimentichiamo che nella storia del cristianesimo contemporaneo abbiamo avuto molti riflessi condizionati di questo tipo. La modernità è stata sospettata a lungo, anche solo per il fatto di aver portato con sé l’emancipazione dalle credenze del passato. Oggi non è raro sentire accenti simili in alcune deprecazioni degli strumenti tecnologici moderni.
Occorre invece che la dottrina sociale ci aiuti, identificando le vere questioni umane, organizzative e politiche suscitate dalle nuove frontiere della conoscenza tecnologica, cui applicare la ricerca di livelli di umanità più alta. Facciamo solo alcuni esempi. Ci vorrà qualcuno che sottolinei la necessità di alzare ed affinare le competenze critiche, per poter consentire agli esseri umani di usare la tecnologia e non venirne al contrario asserviti. Che la tecnologia abbia effetti di cambiamento antropologico è ovvio (poter avere uno smartphone a disposizione ha cambiato il rapporto degli esseri umani con lo spazio, con il tempo, con la memoria…). Ma il cambiamento va sempre dominato: non bisogna abdicare alla capacità di controllo umano sull’enorme aumento di risorse informative che abbiamo a disposizione, e che l’IA certamente aumenterà ancora. Per farlo, occorre mettere le persone in grado di rispondere alla sfida con una specifica attenzione critica.
Oppure: un altro rilevantissimo tema è quello delle conseguenze sociali delle nuove tecnologie, particolarmente rispetto al mondo del lavoro. Non è il caso di porre la questione della capacità collettive di previsione e adattamento ai cambiamenti? Già il pc ha tolto o modificato molti posti di lavoro (creandone certamente altri): l’IA farà certamente qualcosa di simile, forse in modo più esteso. Se non ci si accontenta di piangere sul latte versato, va sottolineato come occorra uno sforzo straordinario – che non può essere lasciato al mercato – di riprogrammazione e adattamento della società alle novità che emergono. Le conseguenze sul piano formativo, associativo, del Welfare, sono evidenti: un messaggio di questo tipo per la politica parrebbe altrettanto forte e la dottrina sociale della Chiesa potrebbe lavorare in questo senso.
E infine, sempre a titolo di esempio. Non occorrerà prendere sul serio la novità economica e organizzativa sostanziale del mondo digitale, legata alla capacità – già ora avanzatissima – di creare valore partendo certamente da molti investimenti iniziali, ma con una riduzione sostanziale dei costi successivi, dati i caratteri immateriali della tecnologia? Questo straordinario e innovativo modo di produrre ricchezza non chiede forse un riadattamento di tutto l’approccio statuale di tipo fiscale e regolativo all’economia? Ci siamo fatti crescere sotto il naso in quindici anni i giganti del digitale, senza produrre una risposta politica e organizzativa minimamente all’altezza. La nuova sfida va presa molto sul serio: la dottrina sociale potrebbe estendersi anche a qualche considerazione in questo campo.
Una dottrina da costruire, per la crescita comune
Nel successivo intervento durante l’udienza alla Fondazione Centesimus annus, papa Leone XIV ha poi offerto alcuni ulteriori stimoli in termini di metodo. Ha definito la dottrina sociale della Chiesa come una disciplina “chiamata a fornire chiavi interpretative che pongano in dialogo scienza e coscienza, dando così un contributo fondamentale alla conoscenza, alla speranza e alla pace”. L’incontro tra la ricerca scientifica e la coscienza morale è quindi il perno del discorso: sembra un richiamo alla Sollicitudo rei socialis di papa Wojtyła, che collocava tale filone di riflessione nell’ambito della teologia morale. Infatti, ha insistito il papa: “più importante dei problemi, o delle risposte a essi, è il modo in cui li affrontiamo, con criteri di valutazione e principi etici e con l’apertura alla grazia di Dio”.
Ma ancor più, egli ha voluto precisare propriamente cosa intenda con l’uso del termine “dottrina”: si ricordi che con Paolo VI si era iniziato a preferire la denominazione “insegnamento sociale della Chiesa”, mentre era stato in seguito lo stesso Giovanni Paolo II a tornare a parlare convintamente di una “dottrina”. Secondo papa Prevost, la dottrina però non è una sorta di bagaglio fisso di principi e norme: “ogni dottrina si riconosce frutto di ricerca e quindi di ipotesi, di voci, di avanzamenti e insuccessi, attraverso i quali cerca di trasmettere una conoscenza affidabile, ordinata e sistematica su una determinata questione”. In questo modo, dunque, “una dottrina non equivale a un’opinione, ma a un cammino comune, corale e persino multidisciplinare verso la verità”.
Sarebbe profondamente diversa una riflessione chiusa e autoritaria: “L’indottrinamento è immorale, impedisce il giudizio critico, attenta alla sacra libertà della propria coscienza – anche se erronea – e si chiude a nuove riflessioni perché rifiuta il movimento, il cambiamento o l’evoluzione delle idee di fronte a nuovi problemi”. Ecco che allora la ricerca ecclesiale deve continuare con un “esercizio di discernimento”, con l’uso del “senso critico”, del dialogo ragionevole, e soprattutto con “l’incontro e l’ascolto dei poveri, tesoro della Chiesa e dell’umanità, portatori di punti di vista scartati, ma indispensabili a vedere il mondo con gli occhi di Dio”.
Mi paiono tutti spunti piuttosto interessanti, che dovrebbero in qualche modo impedire ogni ritorno alla centralità della dottrina sociale intesa come possesso da parte dell’istituzione ecclesiastica di una sorta di visione del mondo definita e conclusa, che raffiguri una verità che basterebbe imporre, o far riconoscere nel gioco sociale, in modo semplicemente di applicarla agli eventi. Una visione che non è mancata nel passato, e che si è adattata al mondo moderno e alla secolarizzazione imperante, traducendosi nella concezione identitaria di una “lobby cattolica” che pur nella coscienza di essere minoritaria si pone sul piano di una rivendicazione di spazi e/o di un negoziato pratico con le altre ideologie. Mi pare che la visione tracciata dal primo intervento papale punti in una direzione diversa: una dottrina non è una semplice opinione, ma è un “pensiero forte” che però può mettersi in gioco nella dialettica delle idee per contribuire a un dialogo costruttivo sul destino dell’umanità. Insomma, un percorso che punti alla “veritas in caritate”, per citare san Paolo (Ef 4,15).
Spunti di un programma di ampio respiro, insomma, che si prospetta aprire un percorso interessante e vivace: attendiamo quindi i suoi sviluppi da parte di papa Leone XIV, e di tutta la comunità dei credenti con lui, che lo accompagni in una prospettiva di crescita comunitaria.
(Foto: vaticannews.va/)