A due anni dall’elezione di Elly Schlein si possono fare alcuni primi bilanci, e soprattutto individuare alcuni nodi irrisolti nell’identità e nella struttura del PD. La nuova segreteria ha molti meriti (non da ultimo aver risollevato, anche sul piano elettorale le sorti del partito) e ha cominciato a ridefinirne il profilo programmatico.
Un modello di partito post-ideologico che non funziona
Tuttavia, non è stato ancora veramente affrontato il tema di una riforma del modello di partito a cui si ispira il Pd. Un partito che, semplicemente, non funziona come luogo di partecipazione e di elaborazione collettiva. Non occorre qui ripercorrere un’analisi che chi scrive ha svolto in varie occasioni: per riassumere in una formula i vari aspetti del problema, il cuore di una possibile riforma del Pd è quello di ricostruire (o meglio, costruire per la prima volta) un partito in cui sia attiva una vera connessione, una circolarità, tra discussione politica, partecipazione e decisione.
Tra tutte le possibili implicazioni, forse la maggiore riguarda la definizione della cultura politica del Pd e il tema del pluralismo interno (come intenderlo, come gestirlo). Concepito come un partito in cui dovessero incontrarsi tutte le maggiori culture politiche democratiche, questo processo di simbiosi e di dialogo, in realtà non è mai nemmeno iniziato. Anzi, si può dire che tutte le culture politiche fondatrici hanno vissuto in una condizione di crescente marginalità: abbiamo assistito al progressivo immiserimento di una qualche elaborazione di cultura politica che avrebbe dovuto sorreggere e ispirare il modo di essere e di operare del partito. Una tara costitutiva, secondo la mia opinione, legata all’idea originaria di un partito post-ideologico, che (si presumeva allora) doveva e poteva “tenersi insieme” sulla base delle “cose da fare”, non sulla base di una qualche identità politico-culturale. Quelle tradizioni di cultura politica (tutte, ripeto: non solo quella cattolica che di solito viene evocata a questo proposito), che pure avrebbero dovuto ispirare il nuovo partito sono divenute sempre più ininfluenti nel suo concreto modo di essere e di operare. Più precisamente, ciò che è mancata totalmente è la loro traduzione nelle scelte politiche e programmatiche, la loro capacità di nutrire il profilo ideale e politico del partito
Tutto ciò è potuto accadere perché l’intero modello di governance del partito appare guidato dalla logica di una democrazia plebiscitaria, non da quello di una democrazia propriamente rappresentativa e deliberativa: basti solo ricordare come i membri degli organismi dirigenti nazionali siano privi di ogni autonoma legittimazione, in quanto eletti “al seguito” dei candidati-segretario. Organismi pletorici, oltre tutto, non certo una sede di deliberazione democratica. Come conseguenza di tutto ciò, le “correnti” non sono state espressione di posizioni politiche e culturali, ma solo aggregazioni mutevoli delle filiere del potere interno. I problemi, del Pd, in fondo, nascono da un semplice dato di fatto: è un partito che non ha mai fatto un congresso vero, ossia una discussione su documenti politici, anche alternativi tra loro, da votare ed emendare nelle unità di base, da sancire infine con una platea ufficiale di delegati, eleggendo organismi dirigenti rappresentativi degli orientamenti del partito.
Una via d’uscita possibile: le conferenze programmatiche
Si potrebbe continuare ancora a lungo sulla pars destruens: ma qui vorrei dare alcune indicazioni concrete sui modi con cui è possibile avviare una riforma del partito, distinguendo tra ciò che implica una completa revisione statutaria, a medio-lungo termine, e ciò che è possibile fare anche a statuto vigente.
Sul primo punto, occorre progettare una conferenza d’organizzazione (con documenti di base da votare e emendare nei circoli e una platea finale di delegati con poteri decisionali) che, dopo aver discusso sul modello di partito, giunga ad una completa revisione dello Statuto: regole congressuali, modalità di elezione del segretario e degli organismi, ruolo degli iscritti e di possibili nuove forme di adesione, primarie (se, come e quando farle), incompatibilità tra ruoli istituzionali e incarichi politici, forme di finanziamento ecc.
E poi ci sono gli interventi urgenti. E qui possiamo partire da una critica ricorrente che viene rivolta all’attuale segreteria ma che in realtà ha caratterizzato da sempre il modo di essere del Pd: quella critica che si esprime in una formula, ossia che “manca una visione”, l’assenza di una cornice che riconnetta i vari segmenti di un programma. Il punto è: si può chiedere al segretario pro tempore, si può pretendere da una singola figura, di svolgere un compito immane, quello di ridefinire l’identità e la visione della sinistra, nel secondo quarto del XXI secolo, quando da almeno trent’anni la sinistra ha perso una propria bussola teorica?
È qui che si pone una domanda elementare, ma cruciale: a cosa serve un partito? Serve appunto a costruire un’elaborazione collettiva, a valorizzare competenze ed esperienze, a orientare l’azione politica quotidiana sulla base di idee, analisi e obiettivi non contingenti, a costruire consenso attorno ad un’immagine condivisa del possibile futuro di una società. Il PD non ha mai fatto nulla di tutto questo.
Come rimediare a questo vuoto? Nello statuto vigente sono previsti alcuni istituti (mai utilizzati): la conferenza programmatica annuale e il congresso tematico. Ecco il terreno su cui il pluralismo interno può davvero rivelarsi proficuo ed essere correttamente valorizzato. Bisogna attivare canali e sedi di discussione e di confronto: il “pluralismo” non può essere un gioco di equilibri tra gruppi di potere interno. Le diverse culture e tradizioni politiche si devono mettere in gioco, traducendo le implicazioni della loro ispirazione nella discussione specifica su un ambito programmatico. Su molti, troppi temi si intuisce e, in qualche occasione si palesa clamorosamente, una profonda differenza di idee all’interno del partito: ma, in assenza di sedi in cui tali differenze siano espresse chiaramente, il partito appare, di volta, afasico o cacofonico. Cosa si può fare, in circostanze simili? Si può pensare, appunto, ad una conferenza programmatica annuale: su due o tre temi rilevanti, su cui si sente il bisogno di un chiarimento, da svolgere anche in questo caso sulla base di documenti (non dei trattati, ma nemmeno striminziti comunicati in cui ciascuno può leggere quel che più gli aggrada), da discutere, votare e approvare nelle unità di base, e poi in un consesso nazionale di delegati.
I temi non mancano: oggi la politica estera, in primo luogo, ma anche le questioni istituzionali, la riforma elettorale, la riforma del regionalismo, le politiche del lavoro. Tutti terreni, lo si vede bene, su cui ci sono posizioni diverse, senza però che se ne venga a capo. E così il discorso pubblico del partito, spesso, rimane indecifrabile o generico.
Pluralismo sì, ma se si costruisce consenso
Questo modo di intendere il pluralismo è deleterio, anche perché non permette che il vero pluralismo quello delle culture politiche e delle ispirazioni ideali, si possa misurare e vivificare sul terreno dell’elaborazione politica e intellettuale. Per questo, riattivare il circuito tra discussione, partecipazione e luoghi della decisione, è un terreno decisivo per il futuro del Pd. La “sintesi” non può essere una mediazione “statica”: riprendendo una nota formula del filosofo John Rawls, non è sufficiente un mero modus vivendi, una coesistenza reciprocamente indifferente di visioni che non dialogano tra loro, ma un “consenso per intersezione”, o per “sovrapposizione” (overlapping consensus), come lo definisce Rawls: costruire cioè un’area comune a partire da concezioni del mondo diverse e tuttavia non lasciando queste visioni racchiuse nella dimensione privata di ciascuno, ma facendole pienamente valere anche nel dibattito pubblico, come argomenti che possano risultare convincenti anche agli occhi di chi muove da altri presupposti di valore o da altri principi. E il terreno comune può essere solo quello che assume la democrazia come orizzonte ideale, e come paradigma critico-conflittuale, un terreno che implica, oggi, sempre più, una valenza e una proiezione antagonistica rispetto alle forme del capitalismo contemporaneo. Si apre ora una fase molto delicata: occorre superare le inerzie e le resistenze di tutti coloro a cui, in fondo, non dispiace un partito feudale, che conceda a tutti una qualche porzione di potere e di visibilità: ma sarebbe la fine per il PD, si tratterebbe di una concezione nefasta del “pluralismo”, non si andrebbe molto lontano. Tutti coloro che vogliono ridare voce e respiro alle culture politiche (al plurale) del pensiero democratico, non possono che battersi con forza per una riforma del modello di partito, per far sì che esso, in primo luogo, torni ad essere un luogo di intelligenza e saggezza collettiva. Il “ruolo” dei cattolici democratici (nelle loro varie identità), ma allo stesso modo lo spazio di chi si colloca nella tradizione del pensiero socialista o in quella del liberalismo di sinistra, o di chi vuole dare rilievo alla nuova centralità della questione ambientale: ecco, tutte queste, ed altre culture politiche democratiche, possono avere un destino comune, dentro un grande partito, solo se questo partito assume fino in fondo la “democrazia” non solo come “metodo” di fronte alle istituzioni (e ci mancherebbe, si potrebbe dire!), ma anche come “pratica” del suo stesso modo di essere e di operare. Ed è sul modo concreto con cui si può ottenere questo obbiettivo, che la discussione ora dovrebbe concentrarsi.