La grande e ineffabile bellezza del cinema risiede nella privacy di un lusso da poveri: immersi nel buio protettivo come dentro una bambagia, si può scivolare sotto la soglia del pudore (o del contegno) e abbandonarsi ad una lecita e sacrosanta incontinenza leggera, quella di  arrendersi a  una lacrima di commozione sotto il ciglio. Esiste un pianto, di cui non ci si deve vergognare, perché certifica il nostro essere ancora vivi.

Ci sono film che si conficcano nella cornea con una scena madre che trasmette l’incandescenza di una forte e vera emozione. Berlinguer. La grande ambizione è uno di questi film e questa che dico è la scena madre, forse avulsa dal percorso narrativo, ma incastonata magnificamente,  brillante come un diamante bianco: esterno giorno,  una festa popolare vicino ad un ponte di barche sul fiume sotto un cielo padano e con la colonna sonora di Eppure il vento soffia ancora, brano distintivo di Pierangelo Bertoli, straordinario cantautore “paralimpico”, campione di sventura,  che allude all’eternità dell’utopia capace di risorgere dalle sconfitte e dalle disillusioni. Una sequenza poetica breve – come un distico aureo – tuttavia capace di interagire con la memoria (storica, filmica e letteraria: il cinema francese di Renoir, , le atmosfere di Zavattini, B.Bertolucci… E ancora, Gianni Celati e Luigi Ghirri), di restituire la fragranza del tempo e di risvegliare il magone, quel dolore sordo tra cuore e bocca dello stomaco causato da un passato indigesto e sospeso, che incidentalmente coincide con “i migliori anni della nostra vita”.

Berlinguer. La grande ambizione, regia di Daniele Segre, non è un biopic, una biografia. Direi che è un necrologio postumo. Gli antichi insegnano che gli epitaffi non contemplano la lista dei ruoli e delle imprese, ma solo i sentimenti che il caro estinto ha governato e incarnato. Ecco, in questo senso il film è un ritratto dell’Uomo con la maiuscola, coniugando pubblico e privato, impegno politico e dimensione familiare. Senza retorica né beatificazioni, attento ad isolare il principio attivo di una vita improntata al rigore e alla discrezione, trascurando volontariamente gli eccipienti, i contorni. Mancano, è vero, alcuni dettagli di contesto, anche importanti (i rapporti complicati dentro la sinistra italiana, tra il partito e i gruppi extra-parlamentari, assente anche Craxi, che non fu certo attore non protagonista). Dettagli  che rimangono fuori campo a beneficio del focus, che è il profilo a tutto tondo di Berlinguer, la rotta narrativa prioritaria. E allora? Anche nell’Infinito di Leopardi, nonostante l’assolutezza del titolo, mancano le finitudini quotidiane.

Ritorniamo dunque ai sentimenti, a quei valori che sono la nostra cifra distintiva. Quali furono quelli di Berlinguer?  Innanzitutto la rettitudine. E qui mi rifaccio a Agnes Heller, filosofa ungherese, che ha deciso nel 2019, a novant’anni in pacca, di andare a nuotare nel lago Balaton fino a sfinirirsi: era sopravvissuta all’Olocausto, aveva visto i carri armati sovietici a Budapest nel 1956, era stata in esilio e quando era tornata in patria, dopo la caduta del Muro di Berlino, si era trovata  Viktor Orbàn al comando: quando è troppo, è troppo. “Certamente ogni persona retta scrive la Heller in Persone perbene, Rettitudine e innocenza nel mondo postmoderno,  edizioni Edb  – lo è in modo diverso, ciascuno a suo modo, ma l’uomo e la donna retta rimangono sempre colui o colei che preferirebbe, se fosse posto di fronte a una scelta, soffrire un’ingiustizia piuttosto che commetterla, subire un torto piuttosto che farlo di proposito a un altro».  A scanso di equivoci, questo non significa essere arrendevoli, neutrali e passivi, tutt’altro, specifica sempre la Heller.

Secondo sentimento: la responsabilità morale di fronte al prossimo. La pellicola si apre con una frase di Antonio Gramsci in esergo:  “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo”. Questa è la chiave etica, che spiega il titolo e dovrebbe essere viatico di cittadinanza civile per tutti. Enrico Berlinguer è stato il segretario del Partito Comunista Italiano dal 1972 fino alla sua morte, avvenuta nel 1984. Il film di Segre non è una rivisitazione ideologica, ma una interrogazione che il presente fa al passato prossimo, è desiderio di capire. Sotto la lente troviamo all’incirca un quinquennio che va dal 1973 al 1978, il periodo storico che rimane un vulnus non cicatrizzato del nostro Paese: il colpo di stato nel Cile di Allende, il mancato “attentato” a Sofia ai danni dello stesso Berlinguer da parte dei servizi segreti bulgari, la strage di Piazza Loggia, pagina non secondaria della strategia della tensione nazionale con risvolti internazionali, le battaglie dell’emancipazione e dei diritti,  i referendum vittoriosi, la stagione memorabile del PCI, il coraggio ostinato e la sfida  di Berlinguer di trovare una via democratica al socialismo rivendicando l’indipendenza rispetto al dirigismo dogmatico di Mosca nella scenario di un mondo nella morsa della guerra fredda, bipolare ( termine che non a caso è trasversale, dall’astronomia alla psichiatria), il dialogo con la Democrazia Cristiana, il “compromesso storico”, il tentativo di creare un corpo sociale e una visione comune fino al sequestro e all’uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse, che stroncarono sul nascere la “rivoluzione gentile”: così la chiamarono.

Il film, politico e intimo nel contempo, racconta tutto questo in modo sobrio, analitico e didattico, mai comunque gridato, evidenziando l’intreccio dei fatti con le zone in ombra degli eventi, i “fantasmi dei fatti” secondo Leonardo Sciascia. Interfaccia la cronaca con il lato privato (Berlinguer marito e padre, bevitore di latte, ginnasta a domicilio…) nell’ambito di una famiglia normalissima che è perimetro educativo di crescita e confronto e non, vivaddio almeno per una volta , ring ibseniano di reciproca nequizia. Tra i meriti, da segnalare il blend, la miscela perfetta tra la fiction e la parte documentaristica, il rumore degli archivi, che per noi è musica. Da non dimenticare le interpretazioni di Elio Germano in primis e di tutti gli altri, che lavorano sulla mimesi dei registri vocali, sulle posture, ovvero sulla persona e non sulla maschera. Che è caricatura.

UItimo valore aggiunto: in un tempo di caotico vuoto come il nostro questo film  ci ricorda che  la politica e la battaglia delle idee implicano  sofferenza. Sofferenza che ne vale la pena. Ci ricorda che la politica deve ridare senso alle parole. Proprio come Berlinguer, che parlava un linguaggio limpido ma anche sodo e amava le parole come un lessicografo. Ci ricorda che la speranza non è stupida, come vogliono farci credere e che, nonostante tutto,  Eppure il vento soffia ancora.

(Foto: www. wikipedia.org – Elio Germano nel film Berlinguer. La grande ambizione)

  • Nino Dolfo

    Nino Dolfo è stato docente di materie letterarie negli istituti superiori. Dagli anni Settanta è iniziata la sua attività di giornalista pubblicistica, come critico cinematografico e cronista di cultura. Collabora con il Corriere della Sera.