Franco Monaco ha posto un tema di grande interesse nel suo articolo sulle ragioni delle attuali difficoltà della sinistra socialista democratica a rispondere alle sfide attuali, fino ad essere subalterna alla destra su temi cruciali: le diseguaglianze, la crisi dell’ordine liberale e della globalizzazione, l’incombere delle guerre. Ha chiamato in causa problemi globali e problemi nazionali, evidenziando nodi su cui merita tornare e identificando uno specifico italiano, legato alla tradizione comunista.

In un passaggio, si avanza l’ipotesi che si possa inscrivere l’eredità di un certo «togliattismo», più o meno ben digerito, tra le cause di qualche aspetto di subalternità ai paradigmi della destra riscontrabile in taluni eredi della sinistra comunista nostrana. Quella dei «figli di Berlinguer». Uno spunto che merita una messa a punto di natura storica sull’interpretazione autentica del «togliattismo», che non si può contentare del luogo comune della sua asserita doppiezza. La storia in proposito è piuttosto complessa: proviamo a riprenderla per sommi capi. Non per caso il comunismo italiano è diventato quello che è diventato, cioè un grande partito di massa che ha intercettato per lunghi anni il consenso da un quarto a un terzo degli italiani. Il gruppo dirigente togliattiano è riuscito a innestare sul tronco della rigida guida sovietica una serie di riflessioni gramsciane, utilizzandole per leggere il contesto italiano all’uscita dalla dittatura fascista e la situazione internazionale della trasformazione della grande alleanza antifascista nei prodromi della guerra fredda. Togliatti, lanciando il modello del «partito nuovo» e della «democrazia progressiva», scelse di contribuire a costruire il quadro costituzionale e democratico-pluralista, radicandovi quindi un partito capace di recuperare l’eredità del socialismo riformista nelle fabbriche e nelle campagne, pur tenendo aperto l’orizzonte della rivoluzione e continuando a vedere il futuro del socialismo più o meno secondo il modello sovietico. Riuscì cioè a scavalcare in termini di efficacia politica l’annoso dilemma riformismo/massimalismo che aveva estenuato il socialismo italiano.

Intendiamoci. Togliatti conosceva bene le virtualità e i limiti del mondo sovietico, oltre che le peculiarità e le rozzezze di Stalin come capo assoluto: era stato un dirigente del comunismo internazionale, non un provinciale militante italiano, ma immaginava anche possibile un suo cambiamento, avendo sperimentato cambiamenti di maggioranze e di linee nel dibattito interno. Quindi, parlando di «via italiana al socialismo», intendeva inizialmente un percorso soprattutto tattico: la rivoluzione non era all’ordine del giorno, ma radicare il partito in un sistema democratico e costituzionale poteva mettere le premesse di tempi migliori, auspicando un cambiamento progressivo del contesto dell’egemonia americana in Occidente e al contempo attendendo una riforma dell’esperienza moscovita, una volta uscita dal trentennio drammatico di guerre che l’aveva condizionata e indotta a caratteri sommari e violenti.

Da questo orizzonte Togliatti non si allontanò, fondamentalmente, lungo i vent’anni della sua leadership, anche se l’esperienza di stare nel gioco democratico, dalla Costituente in poi, gli permise di allargare via via il senso dell’originalità del Pci in senso meno tattico, inserendovi riflessioni sulla costruzione della pace, sulla valorizzazione del portato di una una ispirazione religiosa, sul governo innovatore dell’economia (fuori dal paradigma terzinternazionalista del «crollo ineluttabile del capitalismo»), sul pluralismo sociale e il rapporto con i ceti medi, che fino alla sua morte hanno ispirato un ruolo flessibile del partito in una società complessa come quella italiana. Egli vedeva consolidarsi le democrazie occidentali in un orizzonte di compromesso con il «neocapitalismo» (così venne definito negli anni Sessanta il nuovo assetto politico-economico), cioè con una condizione senz’altro diversa da quella ottocentesca. E si avvicinava curioso a questo orizzonte, senza mai accettare fino in fondo l’idea di lavorare semplicemente per cambiare dall’interno quel contesto. Il primato assoluto del politico (e del partito) nella visione togliattiana significava però tenere aperto lo spazio del cambiamento: si nutriva quindi certamente più che di tattica, ma soffriva certo di evidenti limiti di evoluzione strategica.

Fu Enrico Berlinguer a modificare incisivamente questo assetto, inserendovi un elemento più chiaro rispetto ai fini: il socialismo andava costruito definitivamente nella libertà, il modello sovietico non era più da considerare l’unico o il privilegiato, nel pluricentrismo del comunismo internazionale (questo il senso del cosiddetto «eurocomunismo»). Tutto il suo percorso fu quindi caratterizzato da una ricerca approfondita a questo proposito, che passò attraverso diverse stagioni rispetto alla politica italiana (dal compromesso storico all’alternativa democratica), toccando via via temi cruciali (il senso del rapporto tra crescita economica e austerità contro il consumismo, la pace come condizione del socialismo, la questione morale come rapporto corretto tra istituzioni, società e partiti). Anche grazie a queste intuizioni, egli riuscì a dare uno sbocco politico a una parte della società italiana ancor più ampia che in passato, fuori dai tradizionali schemi di classe: spezzoni del paese movimentati dalla ricerca di un profondo cambiamento culturale e sociale, propria di quei decenni di grande trasformazione. Non volendo però portare la sua revisione ideologica fino ad accettare una prospettiva «socialdemocratica», la sua proposta rischiò progressivamente due limiti: astrarre una specie di poco definita «terza via» tra modello sovietico e occidentale, isolarsi politicamente in modo improduttivo nella difesa della «diversità» comunista.

Al contempo, con la crisi degli anni ’70 del grande compromesso post-bellico tra capitalismo e democrazia (inflazione, disordini sociali, crisi energetica, crisi fiscale Stati) e l’avvio del modello post-industriale della globalizzazione finanziarizzata, la sinistra iniziava a trovarsi spiazzata nel mondo occidentale in generale, non solo in Italia. La classe operaia ne veniva decentralizzata, lo Stato diventava meno capace di affrontare le questioni cruciali globali e locali, l’orizzonte della proprietà collettiva svaniva nel nascente soggettivismo. Una risposta tradizionalista alla crisi si evidenziava come sempre più difficile, mentre sembravano aver più successo forme di modernizzazione che si ispiravano a una mediazione tra «meriti» e «bisogni», di tipo più disinvolto e aggiornato.

La riflessione interna al Pci su questi risultati e questi limiti iniziò faticosamente negli anni ’80 e poi dovette accelerare al momento delle decisioni del 1989 che – di fronte allo shock dell’imprevisto crollo del modello sovietico, fino ad allora criticato ma mai abbandonato del tutto come campo mondiale pluralistico di riferimento – portarono una parte del partito a proporre in modo sofferto l’abbandono del nome «comunista». Restava un riferimento alla sinistra europea occidentale, un orgoglioso distacco dal socialismo (all’epoca rappresentato dal partito profondamente condizionato dalla leadership di Craxi) e una rivendicazione di distanza dal nuovo movimentismo della società civile, in nome di un rinnovato primato della politica, intesa come razionalità specifica. Sbiadiva però definitivamente l’orizzonte del socialismo inteso come obiettivo storico, come modello di società alternativa e diversa da costruire. E qui avveniva una progressiva secolarizzazione, che portava a ridurre anche la «diversità» precedentemente esibita.  L’umanesimo socialista veniva sostituito da un certo progressismo laico.

Dando così spazio progressivamente a quella modalità generale della sinistra internazionale che, nel complesso dell’Occidente democratico, mirava a ricollocarsi nel nuovo scenario. Nell’unico mondo possibile, quello del capitalismo globalizzato, la sinistra che non si fosse isolata nello sterile rimpianto del passato, prese generalmente a spostarsi su posizioni liberal-progressiste, nel tentativo di rispondere alla destra iperliberista sul terreno di una competizione sul futuro, ispirata alla sfida di moderare gli effetti delle trasformazioni in corso, senza opporsi ad esse con un atteggiamento passatista. Intenzione nobile, risultati discutibili. Il riformismo degli anni ’90 ha avuto qualche successo (Clinton, Blair, Schroeder, la Terza via, l’Ulivo italiano…), ma i costi sono stati alti. La torsione liberale della sinistra ha impedito di fare i conti fino in fondo con la dinamica delle diseguaglianze crescenti, dell’impoverimento dei ceti medi, della riduzione delle aspettative di futuro dei vinti della globalizzazione. Tutte questioni che hanno presentato il conto dopo la crisi finanziaria globale del 2007-2008.

Alla fine, quindi, il punto sembra almeno triplice, per la sinistra in generale, ma in particolar modo per gli eredi di questa storia complessa. Da una parte, esiste la necessità di tener vivo un orizzonte di trascendimento della realtà che non sembra più poter essere ideologico (il sol dell’avvenire del socialismo, l’uscita definitiva dal capitalismo), ma probabilmente non può che collocarsi a livello interiore, culturale e morale. Occorre cioè coltivare una rinnovata capacità di critica dell’esistente, che permetta di non appiattirsi sul politicismo inteso come semplice abilità tattica. In secondo luogo, bisogna rilegittimare un beninteso ruolo sociale della politica, al di fuori della logica pura di sopravvivenza del ceto politico e della struttura partitica: recuperando quindi al contempo il limite liberale della politica rispetto alla società, ma senza adattarsi alla verticalizzazione attuale. Infine, c’è la necessità di riprendere in mano la questione dei fini riformisti della politica in modo più radicale che in passato, con un’agenda resa evidente dai fatti: la ricomprensione della statualità (depurata da schematismi premoderni), il rilancio dei diritti sociali e l’istanza cruciale della protezione e promozione delle parti deboli della società.

Tutte esigenze difficili, per tante ragioni: si pensi solo alla separazione attuale tra i mondi civili e la politica, alla carenza di soggetti collettivi che sostituiscano le vecchie certezze sociologiche e le identità classiste, all’impegnativo compito di scalfire le superficialità di una società di individui massificati. Ci ostiniamo però a pensare che tale compito non sia impossibile e soprattutto sia necessario. Di una sinistra subalterna nessuno sa cosa farsene, nemmeno sul mercato elettorale.

(Foto di Javier Allegue Barros su Unsplash)

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.