Pubblichiamo due commenti sul Rapporto Draghi sulla competitività europea. Il documento è rilevante, tanto che pensiamo sia possibile avviare un dibattito ulteriore sui suoi contenuti. Il testo completo del Rapporto, nella traduzione italiana. è disponibile qui nel sito della Camera dei deputati.
Angelo Santagostino
“L’Europa ha le basi per essere un’economia altamente competitiva”. Con queste parole si apre il “Rapporto sul futuro della competitività in Europa”, presentato da Mario Draghi il 9 settembre.
Una cosa va detta innanzitutto. Il rapporto è per il popolo europeo, per evitargli una “lunga agonia”, non sul popolo europeo. Non un piano, ma proposte, la cui adozione e messa in opera è auspicata come frutto di un processo nel quale “i leader e i decisori politici dovrebbero impegnarsi [in] un coinvolgimento più efficace e proattivo dei cittadini”. In sostanza un processo bottom-up.
Draghi ha lanciato una sfida sul futuro della competitività europea: è “esistenziale” e vale 800 miliardi di euro l’anno (finanziabili anche con il ricorso agli eurobond) di investimenti netti: ossia il 4-5 per cento del Pil Ue 2023, il doppio del Piano Marshall per la ricostruzione post-bellica. Una guida per salvare l’Europa attraverso circa 170 proposte di riforma “urgenti e concrete”, “attuabili da subito”, nella quale invoca soprattutto un “cambiamento radicale”. A cominciare dalla governance. Non possiamo più permetterci l’unanimità, l’Europa ha bisogno di poter decidere rapidamente. Se questa non è facilmente introducibile nel trattato, allora si scelga la via delle cooperazioni rafforzate.
Il modello europeo, argomenta Draghi, è frutto di un combinarsi di uno spazio economico integrato e concorrenziale (il mercato unico), aperto verso l’esterno (politica commerciale), nonché di politiche sociali profonde. Il mercato unico si avvale di 440 milioni di consumatori e di 23 milioni di imprese, coprendo il 17% del Pil mondiale.
La sua dimensione – aggiungiamo noi – in termini di flussi del commercio intra-Ue di beni, servizi, e investimenti diretti ha toccato i 5.700 miliardi di euro nel 2023, ammontare di qualcosa superiore alla somma (nello stesso anno) dei Pil di Italia, Francia, Austria e Cechia. Le complessive esportazioni di beni extra-Ue, sostenute anche dagli accordi commerciali con tante parti del mondo, hanno oltrepassato i 2.500 miliardi. Un totale di 8.200.
Il welfare europeo, si legge nel rapporto, ha prodotto un indice delle diseguaglianze di reddito è inferiore di dieci punti a quello di Stati Uniti e Cina, inoltre ha generato risultati invidiabili in termini di sanità, istruzione, protezione dell’ambiente e altro.
Nonostante questi buoni risultati, l’Ue è affetta da una prolunga crisi di crescita. Sullo sfondo vi è la sua stagnante competitività. Questa, non ha solo risvolti economici e sociali, se dovesse aggravarsi ulteriormente potrebbe giungere a intaccare gli stessi valori sui quali l’Ue si basa e dei quali si fa portatrice nel mondo.
Cosa vi è alla base della crisi da competitività? Quando le imprese raggiungono la fase di crescita, incontrano barriere normative e giurisdizionali. Particolarmente onerose nel settore tecnologico, soprattutto per le giovani aziende limitandone la crescita. Procedure complesse e costose nei sistemi nazionali frammentati scoraggiano gli inventori dal richiedere brevetti, impedendo alle loro imprese di avvalersi del mercato unico.
La frammentazione danneggia, comunque, anche le grandi imprese; è, infatti, responsabile del declino di settori ad alta tecnologia come quello farmaceutico. Persino la normativa Ue ostacola l’innovazione: sono un centinaio le leggi incentrate sulla tecnologia (tech-focused), mentre oltre 270 regolamenti sono attivi nelle reti digitali negli Stati membri. Molte leggi dell’Ue adottano poi un approccio precauzionale, dettando specifiche pratiche commerciali ex-ante per evitare potenziali rischi ex-post. Draghi suggerisce all’Ue di valutare approfonditamente l’effetto della regolamentazione sulle Pmi, per escluderle da normative pensate per le grandi, le sole in grado di rispettarle. Ulteriori normative vincolano le imprese a “restare piccole”, ma così non sfruttano le opportunità del mercato unico. Insomma, viene da commentare: attraverso specifiche norme è stato creato il mercato unico, poi altrettante specifiche norme gli impediscono di funzionare appieno.
Non di sola deregolamentazione potrà crescere la competitività europea, ma la via passa ancora attraverso il mercato. Manca un vero mercato unico dell’energia. Gli levati costi energetici hanno un impatto negativo sulla potenziale crescita. Circa la metà delle imprese li considera ostacolo importante agli investimenti, 30 per cento in più rispetto a quelle degli Usa. Tale differenza è determinata, oltre alla mancanza di risorse naturali (qui nulla si può fare) dal limitato potere contrattuale collettivo dell’Europa, nonostante sia il più grande acquirente di gas naturale al mondo. Inoltre, gli investimenti infrastrutturali sono lenti e non ottimali, sia per le energie rinnovabili sia per le reti. Le regole di mercato impediscono a imprese e famiglie di beneficiare dei vantaggi dell’energia pulita nelle loro bollette. Il rapporto raccomanda di rafforzare l’approvvigionamento congiunto, per sfruttare il potere di mercato dell’Europa e stabilire partnership a lungo termine con fornitori affidabili. Per trasferire i benefici della decarbonizzazione propone politiche per disaccoppiare meglio il prezzo del gas naturale dall’energia pulita, introducendo gli appropriati strumenti.
L’esigenza di un mercato unico non si ferma all’energia, estendendosi alla ricerca, allo spazio, ai capitali, alla difesa. Su quest’ultima l’attenzione dei governi europei è stata sinora carente. Tante volte sottostimata, esclusa dalle priorità politiche di troppi governi europei. Merito del rapporto Draghi è analizzarne lo stato con le sue conseguenze, di fornire proposte per la sua modernizzazione, per renderla più efficiente ed efficace. Insomma, Draghi ha avuto il coraggio di dar risalto a quanto sinora, ideologie (falsamente) pacifiste e “politically correct” avevano demonizzato, taciuto o mantenuto a latere. Oggi, quando tante tensioni geopolitiche vanno globalizzandosi, l’argomento politica-industria della difesa diviene prioritario.
La difesa è stata trascurata perché l’Europa se lo è potuto permettere per via dell’ombrello americano. Abbiamo dedicato tante risorse al welfare, a costo di una dipendenza dagli Usa. A ciò va aggiunta la dipendenza energetica dalla Russia, via via cresciuta nei primi due decenni di questo secolo. Da un lato, quindi, minori spese (risparmi) militari, dall’altro importazioni a prezzi relativamente bassi di energia. Una doppia dipendenza sulla quale non possiamo più contare.
Nel dibattito con il candidato repubblicano Donald Trump, la candidata democratica Kamala Harris si è rivolta all’avversario, con riferimento a Vladimir Putin, con queste parole: “è un dittatore che ti mangerebbe a pranzo, i nostri alleati sono, così, grati che lei non sia più presidente, altrimenti Putin siederebbe a Kiev con gli occhi sul resto dell’Europa“. Dalla democratica Harris è venuto un avvertimento per L’Europa.
Tutto sta cambiando, vi è bisogno di forti investimenti di nuove capacità tecnologiche. Insomma, dobbiamo affrancarci da quell’ombrello, renderci autonomi, sviluppare una sovranità europea nella difesa. Anche perché le priorità strategiche di difesa degli Stati Uniti (sempre più con l’occhio al Pacifico) stanno divergendo da quelle europee. Non è più possibile trascurare l’inadeguatezza delle spese pubbliche per la difesa. Sono un terzo di quelle Usa, in Cina aumentano rapidamente, ma non solo, globalmente si assiste a una loro crescita. Oltre ai finanziamenti pubblici, altri ostacoli vanno rimossi per modernizzare l’industria europea della difesa. L’accesso alla finanza privata, particolarmente vero per le Pmi presenti nel settore. La frammentazione in ambiti nazionali di un settore soggetto a economie di scala. La mancanza di coordinazione e standardizzazione degli armamenti; abbiamo dieci o più modelli quando gli Usa ne hanno uno solo. Come conseguenza del ritardo tecnologico, per via dei limitati investimenti nella ricerca, siamo vieppiù dipendenti dagli Usa, ma anche dalla Corea del Sud.
Cosa dunque fare? Dar vita a una politica europea della difesa, aggregare la domanda di armamenti dei Paesi membri, standardizzare prodotti e armonizzare regolamenti, mettere a disposizione fondi europei per gli investimenti nel settore, rimuovere i blocchi per l’accesso alla finanza. Ancora, la politica europea della concorrenza dovrà consentire il consolidamento dell’industria della difesa, per conseguire economie di scala.
In conclusione, non sarà facile, né a livello Ue, né a quello dei suoi membri rafforzare la politica della difesa, gli euro-defence bond potrebbero dare una mano. Ma il maggior problema viene dalla mentalità: ci siamo abituati alla pace, ossia alla finalità primigenia della costruzione europea. Abituati al punto tale da non essere veramente in grado di difenderci. Come Kamala Harris ha avvertito, Putin ci guarda, e forse non solo lui.
Guido Formigoni
Il rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa nell’orizzonte globale, reso noto all’inizio di settembre, a seguito di un mandato avuto dalla Commissione europea, è senz’altro un documento di grande interesse per molteplici motivi. Nelle sue indicazioni progettuali, naturalmente, traspare una serie di prese di posizione e di giudizi sulla realtà attuale e sulle prospettive dell’Unione, che hanno però diversi gradi di condivisibilità, almeno ai nostri occhi.
Partiamo dai primi aspetti: le acquisizioni convincenti. Primo elemento. Draghi esplicita senza remore un punto di vista europeista forte. Il ragionamento sulle condizioni dell’economia e della società del continente, che identifica una serie di punti di forza ma anche di criticità, a proposito di produttività, dinamicità dei mercati, aggiornamento tecnologico e capacità competitiva, approda a sostenere senza equivoci che nessuno degli Stati europei è in grado di affrontare tali questioni da solo. Occorre uno sforzo convergente e unitario all’altezza della competizione tra giganti continentali, che si è ormai delineata nel mondo dopo la crisi del 2007-08. Su questi aspetti, il rapporto è chiarissimo e convincente. Ci vuole più Europa. E ci vogliono riforme – che qui non vogliamo commentare nei dettagli – per rendere più effettivo il mercato unico europeo.
Il secondo aspetto incisivo: Draghi riprende e rilancia la sfida del green deal, della transizione ecologica, della decarbonizzazione dell’economia. Fatto proprio all’inizio dalla Commissione von der Leyen e poi progressivamente ridimensionato o comunque reso meno incisivo, anche per le molteplici reazioni che si sono scagliate contro di esso, tale obiettivo era rimasto negli ultimi tempi un po’ in sordina, anche e soprattutto nel nuovo programma von der Leyen. Il rapporto è invece assolutamente chiaro: l’obiettivo non va affatto ridimensionato, anche se il percorso può essere oggetto di discussioni. Quello che è importante è riaffermare la necessità di un grosso piano di investimenti in questa direzione: si parla di circa il 5% del PIL europeo, un montante cospicuo di denaro (750-800 miliardi di euro), che è cruciale per raggiungere gli obiettivi di compatibilità ambientale, ma al contempo per rilanciare l’economia stagnante e l’aggiornamento del modello produttivo europeo. Non sono due questioni distinte, la crescita e il mutamento del modello, ma una sola, in sostanza.
Terzo elemento cruciale. Questo enorme disegno di sviluppo e cambiamento non può essere affidato alla sola mano privata. Qui vediamo apparire un Draghi singolarmente innovativo, rispetto alla sua stessa storia di alfiere dei mercati e del primato della mano libera al capitale privato. Non che manchi la considerazione per cui il risparmio e l’investimento privato restano decisivi, ma il rapporto indica con forza la necessità di un volano pubblico per permettere il funzionamento adeguato del progetto. Sarebbe coerente sostenere che con i soldi pubblici e con il debito comune richiesto da Draghi andrebbero create delle imprese pubbliche, europee; che ambiscano a diventare campioni globali nella salute, nella transizione energetica, nelle tecnologie digitali, come proposto fra gli altri da Fabrizio Barca. Ma intanto cogliamo il punto del superamento della tradizione dell’austerità, per investire nell’innovazione e quindi rilanciare un modello sociale originale.
Fin qui i punti forti. A mio parere ci sono dei punti meno sviluppati o più discutibili nel Rapporto. Il primo è la mancanza di un ragionamento sulle condizioni politiche del progetto innovativo. Certo, si afferma la necessità di cambiare le regole, di superare l’unanimità e i suoi veti, di sveltire la macchina dell’Unione. Ma è ampiamente inevasa la domanda su come ottenere politicamente questo risultato, in termini di condizioni di forza, di alleanze da costituire, di passaggi strategici. Il ragionamento resta avvolto da un’aura “tecnica” che è la sua specificità (questo forse è stato il mandato da cui l’autore è partito, o forse è il suo approccio mentale preferito…), ma anche il suo limite. Quasi che basti un ragionamento fondato per creare consenso attorno alla sua realizzabilità.
Il secondo aspetto un po’ fragile è la mancanza di un ragionamento sulla sostenibilità sociale di tutto il discorso. Va bene la sostenibilità ambientale, ma non è ora di completare il ragionamento, intrecciando il rapporto degli esseri umani con il mondo naturale con il rapporto degli esseri umani tra loro? Richiamiamo qui la “ecologia integrale” di papa Francesco. Ci sembra cioè sempre più urgente mettere in luce che un futuro più pulito e sostenibile deve essere anche un futuro più equo e giusto, che tagli le punte inaccettabili del capitalismo neoliberista di rapina, che ridimensioni il potere dei grandi gruppi economici globali, che ragioni di fisco in un modo diverso dagli ultimi trent’anni.
Il terzo elemento meno condivisibile è l’enfasi sulla sicurezza. Non che il problema non sia reale: lo scenario è cambiato rispetto ad alcuni anni addietro, certamente. Non si può probabilmente come europei nascondersi dietro l’enorme apparato militare statunitense. Ma da qui a dire che basti un rilancio dell’investimento nell’industria militare a ridare sicurezza ai cittadini europei, ce ne corre. Anzi, bisognerebbe forse ragionare al contrario: più Europa vorrebbe dire anche risparmi e razionalizzazioni sulla difesa (per cui la somma dei singoli Stati dell’Ue costituisce già oggi il secondo bilancio militare al mondo). I quali risparmi sono la premessa, assieme al rilancio della capacità mediatoria e diplomatica dell’Europa come «potenza civile», per smontare il rischio di aggravare semplicemente con un riarmo senza freni il clima culturale e psicologico di guerra permanente dei nostri giorni e quindi rilanciare una sicurezza più solida e sostenibile delle cittadine europee e dei cittadini europei.