C’è qualcosa che non torna nella uscita estiva di Forza Italia a favore dello ius scholae: non solo – come molti hanno già osservato – sotto il profilo politico, essendo mancata l’unica affermazione che avrebbe dato concretezza all’uscita, cioè la disponibilità a votare la riforma “con chi ci sta” e dunque anche con le opposizioni, vista l’assoluta indisponibilità delle altre forze di maggioranza; ma anche sotto il profilo del contenuto.
Proprio il contenuto merita almeno due osservazioni.
Diritto o concessione?
La prima è che le dichiarazioni forziste hanno finto di non considerare la radicale differenza tra la cittadinanza come diritto, da riconoscere automaticamente al verificarsi di determinati presupposti, e la cittadinanza come concessione, esito cioè di un procedimento amministrativo che si conclude con una valutazione discrezionale dell’amministrazione: nel vigente ordinamento la cittadinanza per matrimonio (per il coniuge del cittadino italiano dopo due anni di matrimonio) e la cittadinanza iure soli (quella per il diciottenne nato in Italia che ivi abbia sempre risieduto dalla nascita) rientrano, con qualche differenza, nel primo tipo; la cd “naturalizzazione” (l’acquisizione della cittadinanza dopo 10 anni di residenza) rientra nel secondo tipo. E, come è noto, l’onere di affrontare tale secondo percorso espone il richiedente non solo ad attese di durata biblica (attualmente non meno di tre anni, spesso di più) ma anche a valutazioni dove la discrezionalità amministrativa deborda facilmente nell’arbitrio: la casistica segnala in proposito casi paradossali come il diniego motivato dal reato di modesta gravità commesso dal figlio, o dal genitore, persino dal nonno; la mera denuncia non seguita da alcuno processo o seguita addirittura dalla archiviazione; l’assenza di “italianità”; la riduzione del reddito familiare dovuto alla morte del coniuge nel corso dei tre anni di procedura; e così via.
Dunque è evidente che parlare di ius scholae nel primo o nel secondo senso (come diritto alla acquisizione automatica o come diritto a fare una domanda da sottoporre a valutazione) fa una differenza radicale.
Cittadini dopo la scuola, ma semplificando anche il resto
La seconda considerazione è che nessuno Stato europeo ha adottato il sistema dello ius scholae, come è stato delineato dalle sortite agostane, cioè richiedendo per l’accesso alla cittadinanza sia la nascita sul territorio, sia il completamento della scuola dell’obbligo. Ci sono alcuni paesi (pochi, ad es. la Slovenia, la Grecia) che considerano positivamente il percorso scolastico, ma per chi non è nato sul territorio, ammettendo per altre vie chi invece vi è nato; altri paesi utilizzano il curriculum scolastico svolto con successo come elemento di accelerazione (ad es. la Germania in caso di “successo scolastico” richiede solo 3 anni di residenza); nessun paese richiede sia la nascita, sia il percorso scolastico, precludendo qualsiasi altra strada.
La ragione della scelta meno restrittiva compiuta dagli Stati europei è abbastanza ovvia: se infatti da un lato è pacifico che la scuola è il principale strumento di integrazione, è altrettanto pacifico che condizionare lo status di cittadino al conseguimento di un titolo, rischia di delegare esclusivamente agli insegnanti (la cui valutazione è giustamente anche tecnica) l’ammissione piena nella comunità territoriale, quasi che la maggiore difficoltà, per es., ad apprendere la geometria, possa impedire la condivisione di quelle regole e quei valori che rendono le persone – compreso quelle meno istruite – parte a pieno titolo parte di una comunità.
Dunque lo ius scholae ha senso solo se affiancato a canali più semplici di quelli oggi vigenti in Italia che – come segnalato dal Migration Policy Group – collocano l’Italia al 14mo posto tra i 27 paesi UE, quanto a difficoltà di acquisizione della cittadinanza.
Tra l’altro è paradossale che l’affidamento alla scuola di un compito cosi dirimente venga proposto proprio in un paese come l’Italia, dove il tasso di abbandono scolastico è molto alto (11,5% contro la media europea del 9,6%) e coinvolge soprattutto i minori stranieri ; e che venga proposto dopo che tutti gli studi statistici hanno dimostrato che proprio il riconoscimento della cittadinanza, attribuendo una prospettiva di vita stabile sul territorio, costituisce un incentivo decisivo alla regolarità degli studi e alla riduzione dell’abbandono: sicché da questo punti di vista, collegare il conseguimento del titolo e l’acquisizione, dello status rischia di attivare un illogico corto circuito.
Il valore della cittadinanza, non solo per gli stranieri
Una terza considerazione meritano invece le reazioni alla uscita estiva, quelle accomunate dallo slogan, di sconcertante ovvietà, “la cittadinanza non si regala”.
Ci sarà forse, prima o poi, un mondo dove i confini saranno una linea leggera e dove l’unica cittadinanza sarà quella umana, e noi lo aspettiamo, ma in attesa che questo nuovo mondo compaia all’orizzonte, nessuno dubita che la cittadinanza debba mantenere un forte significato di appartenenza alla comunità e di condivisione di valori e legami: tanto è vero che nessuno propone di eliminare la ritualità del giuramento, né di modificare l’art. 54 comma 1 della Costituzione, laddove prevede che tutti i cittadini (nuovi e vecchi) hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione (il che presuppone di conoscerla) e le leggi.
Ma, forse per uno scherzo della sorte, l’art. 54 è collocato proprio dopo il 53 che sancisce per tutti i cittadini il dovere fiscale, la cui violazione (se fosse anch’esso condizione per il mantenimento della cittadinanza) ridurrebbe i cittadini a uno sparuto gruppo di mazziniani; ed è collocato a un passo dall’art. 52 relativo “al sacro dovere di difesa della Patria” che la Corte Costituzionale (sent.119/2015) ha ritenuto applicabile, quantomeno per la difesa civile, anche allo straniero, riconoscendo così che l’Italia è Patria di quanti vivono sul territorio, stipulando un patto di convivenza, in forza del quale, dice la Corte, “ricevono diritti e restituiscono doveri”.
Vi è dunque una “fedeltà alla Repubblica” che non può arrivare a una verifica di assoluta integrità morale e legale; e vi è una Patria che è tale anche per cittadini stranieri, sicché il percorso verso il riconoscimento formale che rende i “patrioti” anche formali cittadini, deve seguire percorsi proporzionati e ragionevoli.
Quel che è certo è che l’assetto attuale non è né proporzionato, né ragionevole: nella attuale assolutizzazione dello ius sanguinis vi è infatti un elemento etnico-razziale privo di senso logico, perché la goccia di sangue (italico) che scorre nelle vene argentine del giovane nipote di nonno italiano emigrato non ha alcun significato proprio rispetto alla “condivisione di valori” che pretendono, come direbbe Iannacci, “quelli che la cittadinanza non si regala”: e che invece a lui la regalano senza alcuna verifica che non sia, appunto, quella della goccia di sangue.
Un referendum che apre una strada
Bisogna quindi prendere atto con amarezza che la boutade estiva sullo ius scholae non può condurre da nessuna parte, non solo per la sua debolezza politica, ma anche per la sua debolezza contenutistica.
Resta, al momento e in attesa che il vento della ragionevolezza soffi con un po’ più di decisione, la strada che si è aperta da inizio settembre, cioè quella del referendum: eliminando il riferimento alla adozione (che oggi consente all’adottato l’acquisizione della cittadinanza dopo 5 anni di residenza) ed eliminando integralmente il riferimento al requisito decennale, il referendum otterrebbe l’effetto che il regime oggi previsto per gli adottati si applicherebbe a tutti, con l’effetto pratico che la cittadinanza per naturalizzazione si otterrebbe appunto dopo 5 anni, come accade ad es. in Germania, e non dopo 10.
Un referendum tecnicamente ben studiato, dunque, ma certo modesto negli effetti, posto che non darebbe luogo a nessuna nuova acquisizione automatica e lascerebbe il residente quinquennale nelle mani di quella valutazione discrezionale (e lentissima) di cui si è detto e che oggi grava sulle spalle del residente decennale.
E tuttavia, nel deserto di vie alternative realisticamente praticabili, è una strada assolutamente da percorrere non solo perché migliorerebbe la condizione di molti stranieri, ma perché potrebbe dare il segnale di quella seria volontà degli italiani di arrivare a una disciplina meno restrittiva, che le indagini statistiche sembrano finora confermare.
L’impresa è ai limiti del temerario, trattandosi di raccogliere 500.000 firme entro la fine di settembre (per potersi aggregare agli altri referendum della primavera 2025; riproporlo isolatamente nel 2026 dà ovviamente assai meno speranze di raggiungere il quorum). Ma la sfida è stata lanciata e vale la pena mettercela tutta perché non venga persa.
L’indirizzo per firmare con SPID o con CIE è https://pnri.firmereferendum.giustizia.it/referendum/open/dettaglio-open/1100000