Merita una riflessione il breve dibattito – certo non nuovo – sorto a seguito dell’Italia “interetnica” che ci ha entusiasmato e rappresentato intanto che per 12 volte saliva il tricolore e risuonava l’invito a “stringerci a coorte”. Possiamo prendere spunto dal noto post di Bruno Vespa, secondo il quale essere nere, italiane e campionesse rappresenterebbe un bellissimo esempio di “integrazione vincente”. Cui ha fatto seguito, a fronte delle critiche, il paludamento “di sinistra” del medesimo post, cioè la giustificazione secondo cui, siccome “il mondo è più razzista di quanto si immagini” (testualmente), il riferimento alla integrazione sarebbe giustificato dalla necessità di superare gli atteggiamenti razzisti come quelli che dovettero superare i meridionali arrivati a Milano o Torino negli anni ’50.

La tesi richiama vagamente il dibattito sull’uso del termine “razza” che secondo alcuni andrebbe espunto dal linguaggio e dalla legislazione perché implica il riconoscimento di razze diverse. Secondo altri, andrebbe mantenuto per il suo evidente uso “difensivo” di contrasto al razzismo. Così, anche il noto giornalista pensa che l’esigenza di integrazione nasca dal riconoscimento che taluni (non lui, ovviamente) pensano che talaltri siano portatori di caratteristiche (compreso il colore della pelle) che li rendono meritevoli di emarginazione e  stigma o comunque di trattamenti  svantaggiosi: dunque chi deve affrontare tali ostacoli deve appunto affrontare un percorso di “integrazione”.

La questione potrebbe essere cestinata in un attimo, solo osservando che, per restare in ambito pallavolistico, anche la mitica schiacciatrice (italiana) Ecaterina Andropova, con i suoi 202 cm di altezza non ha “tratti somatici che rappresentano la maggioranza degli italiani” (per usare le parole usate da un noto generale nei confronti della Egonu), essendo le restanti italiane notoriamente più basse.  Eppure nessuno, per lei, ipotizza che ciò possa essere ragione di emarginazione e nessuno si sogna quindi di parlare, per lei, di “integrazione”, riuscita o non riuscita.

Sarebbe una replica pertinente, ma forse banale, essendo evidente che sulle navi che trasportavano gli schiavi non c’erano i troppo alti, ma i troppo neri, che M.L. King non era troppo alto, ma troppo nero e che nel corso dei secoli, tra le varie caratteristiche umane, il colore della pelle e non l’altezza o il peso, o la lunghezza dei capelli o altro   ha avuto gli effetti drammatici che conosciamo.

La questione è dunque più complessa: ammesso che con la parola “integrazione” il noto giornalista abbia inteso riferirsi a una situazione in cui le persone vengono considerate uguali e trattate in modo uguale; e ammesso (ma vi è da dubitarne) che questo sia considerato un obiettivo da perseguire, la questione è se questo obiettivo si raggiunge negando le differenze o riconoscendo gli ostacoli al suo conseguimento; o meglio ancora quali differenze debbano essere ignorate perché il solo rimarcarle (fosse anche “a fin di bene”) rafforza il pregiudizio; e quali vanno riconosciute per combatterle e rimuoverle.

Il diritto fornisce sul punto una risposta chiara: già ai costituenti – nel momento in cui hanno introdotto, con il comma 2 dell’art. 3 della Costituzione,  il riferimento alla “eguaglianza sostanziale” – era assai chiaro che non bastava l’astratta affermazione di uguaglianza, ma si imponeva la rimozione degli ostacoli di fatto al conseguimento della stessa. La rimozione degli ostacoli richiede necessariamente il riconoscimento che determinati gruppi sociali muovono, per ragioni storiche, da una situazione di radicale svantaggio.

Piu recentemente il diritto antidiscriminatorio (articolato in direttive dell’Unione europea, convenzioni internazionali, norme interne) ha sviluppato ulteriormente il concetto: così il divieto di discriminazione si è definito non più soltanto come il mero obbligo di  “neutralizzare”  gli effetti delle  cd  “caratteristiche protette” rendendo la giustizia  “cieca” rispetto a quelle caratteristiche (ti assumo, ti premio o  ti riconosco un qualsiasi beneficio senza tener conto del tuo genere, della tua etnia, del tutto orientamento sessuale ecc.). A questa tradizionale funzione, ben evidenziata dall’iconografica della giustizia come dea bendata, il diritto ha affiancato quella di riconoscere le identità e le differenze, garantendo che queste non si trasformino in svantaggi; sicché l’uguaglianza può divenire, ad esempio,  non che tutti debbano accedere al lavoro vestititi allo stesso modo, ma che chi ha l’esigenza di tutelare la sua identità religiosa possa accedervi senza subire svantaggi dalla sua scelta di indossare – a differenza di tutti gli altri –  il velo,  o il turbante o la kippah o qualsiasi altro simbolo delle sue convinzioni religiose.

Si prefigura così un ordinamento dove nessuno è più tentato di occultare la sua appartenenza al “gruppo protetto” o di temere gli effetti del suo riconoscimento, sapendo anzi che quella identità costituisce ragione di protezione. Una elaborazione che è giunta al punto di varare la nozione di “accomodamento ragionevole”, nata nell’ambito della tutela dei disabili, ma utilizzata dalla Cassazione persino per risolvere – in ambito di discriminazione religiosa – la questione del crocifisso nelle scuole. Si tratta cioè di una modifica delle ordinarie regole del vivere collettivo (dell’impresa, della scuola ecc.) per fare spazio a chi muove da una condizione minoritaria svantaggiosa e costruire per lui, appunto, condizioni di uguaglianza effettiva.

Ha dunque ragione il noto giornalista quando, correggendo il primo post, rivendica l’utilità e la necessità di parlare di “integrazione” fino a che l’esistenza di “razzisti” renderà necessario adottare provvedimenti, appunto, di superamento del razzismo?

Niente affatto: perché ciò che probabilmente gli sfugge è che l’affermazione dell’uguaglianza e il riconoscimento delle “diversità svantaggiate” convivono e si bilanciano in un delicato equilibrio: c’è un tempo (e una occasione) per segnalare la “diversità” al fine di tutelarla e un tempo per ignorarla al fine di non approfondire il solco. Non comprenderlo costituisce peccato mortale.

Così è di tutta evidenza che  una persona italiana di successo come Paola Egonu  non ha alcun bisogno di “integrarsi”,  perché il colore della sua pelle non costituisce motivo di diversità che debba rapportarsi o coordinarsi con le caratteristiche “maggioritarie” dei restanti consociati. Un migrante sub-sahariano che sbarchi sulle nostre coste ha invece ovviamente bisogno di un percorso (di sostegno economico, di formazione linguistica e lavorativa e anche di confronto con le regole del vivere collettivo del luogo ove è giunto) che gli consenta di condurre qui una vita dignitosa. E se lo si vuol proprio chiamare di integrazione, si faccia pure, purché ci si intenda.

L’uguaglianza si costruisce dunque non distribuendo patenti di integrazione, ma coniugando “l’unicità” indifferenziata dell’essere umano con il riconoscimento del bisogno differenziato (non solo materiale) di chi muove da una condizione minoritaria di svantaggio.  Sempreché l’uguaglianza – quella vera, cui pensava il costituente – sia considerata un valore: ma  forse non tutti quelli che amano parlare di  integrazione,  la considerano davvero tale.

Crediti foto: quirinale.it

  • Alberto Guariso

    Avvocato, in precedenza ha lavorato come funzionario sindacale presso la CISL di Milano.