“Come si farà questa organizzazione delle Regioni e quali saranno le spese necessarie e chi le sopporterà? Quale diffidenza inevitabile e quali lotte fra le regioni autonome e Stato! […] L’autonomia regionale è intesa, in fondo, come un distacco da cui si possono avere tutti i vantaggi dell’unità senza il peso. Presto o tardi, potete essere sicuri, si arriverà alla separazione, e voi, che siete più giovani di me, ne vedrete le terribili conseguenze. La Regione autonoma non può sboccare che nella diffidenza, e la diffidenza non può sboccare che nella difficoltà della convivenza. Vedete già gli atteggiamenti che vi sono nei Paesi dove ci sono i cosiddetti movimenti autonomisti. Si cominciano a fare i conti: come ci regoleremo? Alcuni rimproverano agli altri le cose di cui forse dovrebbero rimproverare se stessi, ma nessuno porta una nota amica.” Ritornano attuali e premonitrici le parole di Francesco Saverio Nitti all’Assemblea Costituente il 6 giugno 1947.
Al Ddl sull’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, si pongono interrogativi sostanziali. Il primo dei quali è: quale futuro per l’Italia? L’auspicio di fondo sarebbe quello di accantonare, per quanto possibile, posizioni di parte o geograficamente di parte per una più coerente e unitaria visione. Nella prospettiva di un pluralismo territoriale che nell’unità possa concretamente riconoscere e tutelare il fondamentale principio di eguaglianza. “L’unità della Repubblica è uno di quegli elementi così essenziali dell’ordinamento costituzionale da essere sottratti persino al potere di revisione costituzionale.” Un principio supremo, fondamentale e sovraordinato. Così la Corte costituzionale nella sentenza n.118/2015 che bocciava il referendum secessionistico del Veneto.
Indispensabile, pertanto, un supplemento di riflessioni da parte del Parlamento a fronte di una radicalizzazione delle posizioni che certo bene non fa per una ragionevole legiferazione. È necessaria una comunitaria assunzione di consapevolezza e responsabilità. Guidati dai fondamentali della nostra Costituzione. Aperti a una coerente coniugazione tra valorizzazione delle autonomie regionali, unità e indivisibilità della Repubblica. Nella prospettiva del bene comune, “perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro.” (Cost. Gaudium et spes, n.164)
Da anni si parla di regionalismo differenziato. Una lunga storia. Con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, che prevede la possibilità di demandare alle regioni a statuto ordinario la gestione di una serie di materie, per arrivare all’attuale Ddl.
Da un lato i fautori che lo ritengono idoneo a rispettare l’unità nazionale nonché a rimuovere discriminazioni e disparità nel rispetto dei principi di unità giuridica ed economica, di coesione economica, sociale e territoriale.
Dall’altro i contrari che invece prevedono la frammentazione nazionale e la differenziazione. E, non secondaria, una lesione al principio di eguaglianza che è tra i fondamenti della nostra democrazia. Inoltre, un Ddl che estromette il Parlamento, rimettendosi a fonti governative, cabine di regia e commissari.
È ancora possibile raggiungere a livello legislativo una sintesi virtuosa? Il Ddl è legge ordinaria in attuazione proprio della riforma del 2001, già oggetto di critiche. Previste una pluralità di materie da trasferire alle regioni e centinaia di funzioni. Secondo il Report della Fondazione Mezzogiorno, le funzioni non Lep (Livelli Essenziali delle Prestazioni) – attribuibili da subito per devoluzione immediata – sarebbero potenzialmente ben 184. Senza considerare le altre centinaia di funzioni collegate ai Lep. Conseguenze che la Fondazione prevede: babele normativa e moltiplicazione delle burocrazie.
E già questi dati sono di per sé significativi! Sarebbe auspicabile un più concreto ascolto dei rilievi sollevati da organi terzi nelle varie sedi. Per evitare, soprattutto, divisioni e diseguaglianze. “Un particolarismo istituzionale” che preoccupa la CEI e Conferenze Episcopali regionali. E poi le osservazioni dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, dell’Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno (SVIMEZ) e del Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze (GIMBE) per ricordare alcune. Senza tralasciare interventi di autorevoli costituzionalisti.
Gli obiettivi dei rilievi sollevati sono volti a favorire su tutto il territorio nazionale, prima di tutto, l’effettiva attuazione del principio di eguaglianza e dei Lep concernenti diritti civili e sociali. Per evitare il perpetuarsi di disparità e divisioni tra Nord e Sud. Per scongiurare frammentazioni ulteriori in materie che rappresentano il fondamento essenziale dell’unità della Repubblica e dell’equilibrio democratico. Per confermare la pluralità nell’unità della Repubblica (art. 5 Cost). Per evitare, insomma, un’autonomia privilegiata.
Nel Ddl si prevede la determinazione dei Lep e dei relativi costi e fabbisogni standard, nei limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio. Successivamente il trasferimento delle funzioni con relative risorse umane, strumentali e finanziarie concernenti materie e ambiti di materie riferibili ai Lep, secondo le modalità e le procedure di quantificazione individuate dalle singole intese bilaterali tra Stato e Regione. Tuttavia, si consente l’immediata stipula di intese concernenti le altre materie a legislazione concorrente (art. 117 Cost) e il trasferimento delle funzioni con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente, dalla data di entrata in vigore della legge.
Un interrogativo. Come verranno determinati i Lep con relativi costi e fabbisogni standard? Opportuno risolvere prima l’asimmetria e poi arrivare all’autonomia? Oppure il contrario, come è stato invece preferito? Ancora, la Corte costituzionale (Sentenza n.275/2016) ricorda le priorità, richiamando che il “concetto di equilibrio del bilancio va correttamente inteso nel senso che è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionare la doverosa erogazione delle prestazioni per realizzarlo.”
Il Ddl prevede misure perequative e di promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale. Si individua un complesso di misure strumentali ma risulta abbastanza problematico declinare tali obiettivi senza maggiori oneri per lo Stato. E così alcune Regioni partiranno con l’autonomia. Altre, alla ricerca di fondi per la perequazione, in tempi differiti. In un indefinito futuro con prevedibili contenziosi.
Ragionevole ipotizzare, poi, l’estensione dall’autonomia differenziata delle Regioni all’autonomia differenziata di macroregioni. Uno slippery slope, un pendio scivoloso che marcherebbe ancor più la frammentazione. Da cui una conseguente e non certo secondaria inquietudine. Eppure, sul versante geopolitico si registrano preoccupanti divisioni che richiederebbero piuttosto una visione unitaria, non divisa, non frammentata. Appunto non differenziata. Almeno non nelle forme e nelle modalità previste.
Allora, che cos’è davvero necessario? Una visione di regionalismo che assicuri prima di tutto uguali, concrete e realistiche opportunità di accesso con la fattiva coniugazione tra sussidiarietà e solidarietà. Come ci ricorda l’Enciclica Caritas in Veritate, “il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo.”
Domanda. L’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, come prospettata, si può definire fondata sulla stretta connessione tra sussidiarietà e solidarietà?
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