La tragica ripresa della conflittualità nell’eterno scontro israelo-palestinese avrà conseguenze di lungo periodo. Sicuramente nello stallo indefinito di ogni dialogo tra le forze organizzate sul territorio: quel dialogo che era vissuto in nome dello slogan «due Stati per due popoli». Per la verità, il sogno di Oslo si era rivelato fragilissimo fin da subito. L’ipotesi era suggestiva: il riconoscimento reciproco tra Israele e Olp come interlocutori legittimi – un successo notevole già solo questo – avrebbe avviato un «processo» diplomatico che si immaginava poter pian piano superare gli ostacoli altissimi che si frapponevano, avvicinando il modello dei due Stati nazionali, vagamente adombrato come approdo finale. Le ambiguità erano evidenti fin da subito e l’accumulo di questioni su cui non si poteva discutere e che quindi si rinviavano era enorme (la questione del ritorno dei palestinesi espulsi nel 1948, la questione di Gerusalemme, la questione dei confini e degli insediamenti dei coloni israeliani nei territori occupati dal 1967). Già dal 2000 il percorso era entrato nello stallo definitivo, con la seconda Intifada. Oggi però possiamo considerare definitivamente dimenticato quel progetto.

Resta qualcos’ altro, cui appendere l’esile speranza di una convivenza senza violenza, che continui a contrastare la pesantezza del pessimismo della ragione? A ben vedere, l’unica altra ipotesi sul terreno nei dibattiti culturali e politici degli ultimi decenni era stata quella della integrazione dei due popoli in un unico Stato democratico binazionale e pluralista, basato su criteri di tolleranza e rispetto delle differenze. Anche in Israele una parte dell’intellettualità aperta e lungimirante era da lunghissimo tempo stata favorevole a questa ipotesi, fin da grandi esempi come Martin Buber, Gershom Scholem, Jehuda Magnes. Si erano espressi in questa direzione anche autorevoli figure palestinesi come lo stesso Edward Said o Mahmoud Darwish. Piccoli ma testardi esperimenti di solidarietà dal basso e di integrazioni di fatto tra persone concrete avevano tenuto lungamente viva questa prospettiva, e lo fanno ancora oggi (ricordiamo Nevé Shalom/ Wahat as-Salam, l’oasi fondata da Bruno Hussar, o anche le scuole di Hand in Hand). Una corrente intellettuale israeliana negli ultimi anni è arrivata a definirsi «post-sionista» in questo senso. Sul piano internazionale, ricordiamo l’appassionata testimonianza di Tony Judt. C’è margine per tornare a ragionare di questo scenario?

La premessa di questo discorso mi pare piuttosto evidente: oggi tra il Giordano e il mare c’è un solo Stato, Israele, con una situazione di sovranità non completamente legittimata e riconosciuta, ma con un controllo politico di fatto di tutto il territorio. La democrazia sperimentata dai palestinesi nell’Autorità nazionale dopo Oslo è stata ristrettissima, fragile e iniziale (non poteva che essere così…), aprendosi alla vittoria alle urne di una forza ambigua come Hamas (che non nasce solo come forza militare terroristica, ricordiamocelo). Bisogna          quindi guardare a Israele e alle sue prospettive per ragionare di futuro. E qui la situazione sembrerebbe potenzialmente più favorevole. Israele – continua a ripetere come un mantra la nostrana informazione – è l’unica democrazia del Medio Oriente. Quindi ci dovrebbe essere nella sua storia e nella sua esperienza istituzionale un elemento basilare importantissimo, cui ci si possa agganciare per costruire una pratica di convivenza.

Il punto però è che la democrazia israeliana è una democrazia con molti elementi di particolarità.  È incontestabilmente legata fin dalle origini alla centralità del metodo rappresentativo e alla sovranità della Knesset, del parlamento. Ma porta con sé i segni di una storia complessa, che ha dentro i semi di evoluzioni diverse tra loro e che recentemente sembra aver preso un sentiero del tutto rischioso. Innanzitutto, si tratta di una democrazia priva di una vera e propria costituzione. Il motivo è semplice da spiegare: dopo la costituzione dello Stato d’Israele e l’elezione di un parlamento con funzione di costituente, non si arrivò per anni a formalizzare una carta fondamentale per varie ragioni, tra cui la principale fu naturalmente il clima di guerra permanente con gli Stati arabi circostanti, che durò almeno fino alla fine del decennio ’70. La sindrome da accerchiamento non poteva che rafforzare la chiusura delle istituzioni nella logica dell’autodifesa a tutti i costi. Fino al 1966 nei confronti dei cittadini arabi-palestinesi rimasti in Israele funzionava semplicemente la legge marziale.

Restava certo la riconosciuta centralità della dichiarazione di indipendenza del 1948, una sorta di concentrato di valori che prefigurava uno Stato che «sarà basato sulla libertà, la giustizia e la pace come annunciato dai profeti d’Israele; deve garantire la piena uguaglianza dei diritti sociali e politici di tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso; deve garantire la libertà di religione, coscienza, lingua, istruzione e cultura». Progressivamente, poi, al posto di una costituzione formale furono approvate una serie di Leggi fondamentali (che oggi sono quattordici), le quali nella loro interezza e nella loro integrazione reciproca costituiscono secondo alcuni osservatori una sorta di «costituzione a tappe». Alcune di queste leggi, soprattutto tra le prime originariamente approvate, naturalmente misero le basi di una visione strutturale che doveva avere conseguenze sul lungo periodo: si pensi alla legge del Ritorno, che prevede la concessione immediata della cittadinanza a qualsiasi persona ebrea ne faccia domanda. O alla legge sulla cittadinanza del 1952, che disegna vie estremamente diverse per l’ottenimento della cittadinanza tra ebrei e non-ebrei. Quindi iniziava un itinerario piuttosto particolare.

Con il tempo, il paese si è evoluto in un assetto certamente più avanzato. Se ricordiamo la famosa indicazione della Dichiarazione francese dei diritti del 1789, i due caratteri fondamentali della costituzione, cioè il riconoscimento dei diritti e la separazione dei poteri, sono stati sicuramente migliorati in Israele. Soprattutto la Legge fondamentale del 1992 sulla libertà e la dignità della persona ha aperto uno spiraglio cospicuo in questa direzione. Dopo quella legge, si è per esempio introdotto un controllo della Corte suprema (indipendente dal potere politico) sull’operato della Knesset e del potere esecutivo: è interessante notare che il governo Netanyahu ha esattamente negli ultimi mesi tentato di introdurre una serie di limiti a questo controllo, scatenando una fortissima reazione democratica nella società israeliana.

In questo tipo di percorso evolutivo, però, occorre notare che le tendenze recenti hanno introdotto una serie di limitazioni e correzioni, capaci di riportare indietro il discorso. Le difficoltà di molte democrazie contemporanee, alle prese con fenomeni di concentrazione del potere, rigetto del diverso, ossessioni securitarie, polarizzazione interna, sono state enfatizzate in Israele dalle peculiarità sopra ricordate, soprattutto dalla permanente ossessione per la sicurezza (comprensibile alla luce della storia, ma ovviamente passibile di moltissime implicazioni pericolose). Si pensi soprattutto alla discussa Legge fondamentale del 2018 che ha definito Israele «Stato-nazione del popolo ebraico». Questo nesso stretto tra l’identità statuale e una identità pre-politica definita in termini nazionali è di per sé un elemento problematico. La definizione di «popolo ebraico» non è chiarita tecnicamente nella legge, ma delle due l’una: o si tratta di una questione di etnicità, di discendenza, oppure di religione. Il nesso tra identità etnica e dimensione religiosa sta del resto fortemente crescendo nella esperienza di tutti giorni, a saldare un legame che introduce oggettivamente una differenza tra cittadini dello stesso Stato democratico. La società di Israele è composita rispetto a questo legame: a un gruppo che vive in modo laico la propria identità ebraica si affiancano ebrei tradizionalisti, nazional-religiosi, ultraortodossi. La vita quotidiana ne è comunque già stata ampiamente condizionata. Non a caso, la minoranza araba palestinese di cittadinanza israeliana (che oggi ammonta a circa il 20% della popolazione e che già aveva uno status diverso rispetto alla popolazione ebraica) si è vista limitata ulteriormente nel proprio riconoscimento da parte delle istituzioni: casi rivelatori sono stati i limiti alla concessione della cittadinanza ad arabi palestinesi per ragione di matrimonio, ad esempio. Oppure va ricordato anche il potere conferito alla commissione elettorale della Knesset di non ammettere alle elezioni liste le cui piattaforme politiche sono valutate inconciliabili con la definizione di Israele quale Stato ebraico.

Alla fine di questo discorso stanno le posizioni della destra radicale, l’oltranzismo sionista della corrente che sovrappone in modo esplicito linguaggio religioso, identità etnica e senso di Eretz Israel (la terra d’Israele), concepita nella massima estensione storica dell’epoca biblica. Posizioni come quella del ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, il quale ha dichiarato che Gaza dovrebbe essere «nostra» e che «i palestinesi possono andare […] in Arabia Saudita o in altri luoghi, come l’Iraq o l’Iran». Diciamolo: qui si arriva a una linea di sostanziale pulizia etnica. Ripeto, queste sono al momento posizioni condivise soltanto da una corrente minoritaria estrema, peraltro molto influente, perché fondamentale per costituire una maggioranza di governo, in un gioco parlamentare altamente instabile.

Secondo qualche osservatore, con questa evoluzione Israele ha fatto pendere l’equilibrio originario tra democrazia ed ebraicità in una direzione evidente, trasformando il paese in qualcosa di simile a una «democrazia etnica» o a una «etnocrazia». Voci della cultura ebraica e della intellettualità israeliana negano questo esito, ma la questione rimane aperta.

Di fatto, nell’unico Stato israeliano oggi esistente, ci sono persone i cui movimenti, i viaggi, lo stato civile, le attività economiche, i diritti di proprietà e l’accesso ai servizi pubblici sono fortemente limitati. Una quota sostanziale di residenti di lunga data, con radici profonde e continue nel territorio di quello Stato, è stata resa apolide, come i palestinesi dei territori. Tutte queste categorie e gradazioni di emarginazione sono applicate con misure legali, politiche e di sicurezza imposte da autorità statali che rispondono solo a una parte della popolazione (i coloni insediati nei territori votano per la Knesset, i palestinesi degli stessi territori ovviamente no). Una situazione altamente instabile e pericolosa. Se Israele annettesse definitivamente i territori e la popolazione che li abita, uscendo dall’ambiguità persistente, si troverebbe però a governare una popolazione di 13 milioni di abitanti, quasi equamente divisa tra arabi palestinesi ed ebrei. Come potrebbe tenere e consolidarsi in questa situazione una democrazia basata sul concetto dello «Stato-nazione del popolo ebraico»? Non sarebbe necessario uno scatto ulteriore, un salto di qualità, per contemperare il rispetto delle diversità con una democrazia vissuta nell’uguaglianza tra tutti i suoi abitanti, che costituzionalizzi e depotenzi il rischio di violenza presente nel confronto tra le identità nazionali?

(Nella foto: Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat durante gli accordi di Oslo, 13 settembre 1993. Foto di Vince Musi / The White House – gpo.gov in https://commons.wikimedia.org)

 

 

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore vicario, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.