La legge di bilancio per il 2024 riporta il Paese ai periodi pre-pandemici. L’Europa e l’Italia hanno retto relativamente bene sin qui all’urto degli eventi avversi di questi anni, gli interventi proposti dalla BCE e dalla Commissione Europea hanno complessivamente funzionato, ma le prospettive globali non sono ancora sufficientemente confortanti da poter immaginare di essere su un sentiero di crescita adeguato a finanziare il tanto debito che abbiamo generato. Dopo le leggi di bilancio di sostegno all’economia in difficoltà degli anni scorsi e mentre è prossima la sospensione del Patto di stabilità europeo, in un quadro in cui si è avuto un aumento drammatico dei tassi di interesse, necessario per fermare l’inflazione, che appesantisce i bilanci dei paesi che si sono indebitati in modo significativo e tra questi, primo fra tutti, l’Italia. Sulla crescita italiana peserà la realizzazione del PNRR che, dopo l’approvazione recente delle modifiche proposte dal governo, ci auguriamo possa riprendere spedito nella realizzazione degli obiettivi (ridimensionati). Su quel fronte è stato perso sin troppo tempo.
Nella Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (NADEF) per il 2024/2026 il governo aveva indicato il seguente quadro di riferimento: la crescita del PIL nel 2023 era fissata allo 0,8% (da verificare in base all’andamento del secondo semestre), quella del 2024 al +1,2% e del 2025 al +1,4%. I tassi di crescita futuri fissati dal governo erano tutti più alti delle previsioni di Banca d’Italia e di FMI (0,9). Per l’inflazione al consumo del 2024 la previsione era del 2,4% in linea con le previsioni anche della Commissione (2,7%). Per il quadro di finanza pubblica, il governo ha rivisto verso l’alto rispetto al DEF di aprile (3,5%) l’obiettivo di “indebitamento netto” (ovvero del deficit) in misura pari al 4,3% del PIL per il 2024 (sebbene in diminuzione rispetto al 5,3% del 2023) e del 3,6% nel 2025, con un rientro al 2,9% nel 2026. Il cosiddetto saldo primario (ovvero il deficit senza tenere conto del pagamento per gli interessi sul debito pubblico) rientrerebbe su un valore positivo (0,7% del PIL) nel 2025, a cui si accompagna una riduzione del rapporto debito/PIL dal 140,2% del 2023 al 139,6 del 2025.
Infine i numeri complessivi: la manovra del governo italiano prevede per il 2024 minori entrate per 18,8 miliardi di euro (4,2 di riforma fiscale, 10,4 di taglio del cuneo fiscale, 2,2 di incentivi alle imprese, 1,7 di politiche per la famiglia) e 9,1 miliardi di maggiori uscite (1,7 sanità, 1,5 pubblico impiego, 2 per le politiche invariate, 0,85 per investimenti pubblici e enti locali). Le coperture prevedono 1,4 mld. di maggiori entrate e 10,7 mld. di minori uscite (di cui 7,6 da determinare nel dettaglio). In ogni caso, ci sono circa 16 mld. da finanziare in deficit.
Come più volte affermato dal ministro dell’Economia Giorgetti, i bonus edilizi hanno pesato molto sui conti di questi anni. Ma, per effetto dell’obbligo di contabilizzarne le uscite tra il 2020 ed il 2023 imposto dall’Europa, si poteva aprire uno spazio di riduzione del deficit a cui il governo ha rinunciato per realizzare misure temporanee di sostegno all’economia o forse si poteva usare per qualcosa d’altro.
Il finanziamento della sanità, uno degli elementi più delicati di questa manovra, si incrementa di 3 miliardi (di cui 2,5 per i rinnovi contrattuali). Complessivamente il ministro ha annunciato risorse per 136 miliardi che però implicano una contrazione della spesa in termini reali di 1,4% rispetto al 2023 e di 4,2% rispetto al 2022 (fonte Osservatorio Conti Pubblici Università Cattolica). Questi numeri impediscono di affrontare il tema del recupero della spesa sanitaria in termini reali, per limitare i danni dell’inflazione che, insieme a quelli del Covid, stanno generando un grave peggioramento del servizio sanitario italiano.
Fin qui la situazione, vediamo ora qualche elemento di valutazione. Le istituzioni europee si sono espresse nel quadro delle valutazioni sulle leggi di bilancio dei diversi paesi ed hanno espresso una sostanziale “promozione con riserva” (meglio di altri paesi che hanno avuto una bocciatura della manovra). Nella valutazione critica sono ricompresi alcuni temi importanti come la mancata attuazione della legge delega e provvedimenti sul fisco dal respiro corto (finanziati solo per il 2024) o la riduzione della base imponibile generata dalle aliquote piatte sui redditi di lavoro autonomo e sull’eliminazione dell’ACE che favoriva la capitalizzazione delle imprese. Le agenzie di rating hanno mantenuto i livelli precedenti e questo è certamente un buon risultato per il governo, che ha effetti importanti per la gestione del debito e che ha avuto un impatto certamente anche sul rientro dell’impennata degli spread di qualche settimana fa.
Due sono gli altri temi delicati dell’intera manovra: gli interventi (mancati) sul fronte pensionistico e il taglio temporaneo del cuneo fiscale.
Sul primo punto il governo smentisce l’approccio “generoso” dei governi di centro-destra e, partendo da un sostanziale apprezzamento della riforma Fornero sui documenti ufficiali, introduce dal 2025 con due anni di anticipo rispetto al previsto (decisione del governo Conte 1), l’adeguamento della soglia per la pensione anticipata all’aspettativa di vita. A questo si aggiunge che, a meno di cambiamenti parlamentari improbabili, la nuova quota 104, l’Ape sociale e l’opzione sono stati resi molto meno convenienti. Con questi provvedimenti la maggioranza politica del governo Meloni si aggiunge ai tanti governi, quasi sempre tecnici o di centrosinistra, che hanno affrontato la questione dell’invecchiamento della popolazione ed il suo impatto sul sistema pensionistico, abbandonando l’approccio populista alla quota 100 del governo gialloverde.
Inoltre, è stato confermato il taglio del cuneo fiscale già introdotto dal governo Draghi e potenziato dal governo Meloni. Si tratta di un provvedimento che costa circa 10 miliardi (ma non è finanziato per il 2025), che riguarda quasi 14 milioni di lavoratori e che ha un effetto implicito di parziale recupero anche dell’inflazione per coloro che non hanno avuto il rinnovo contrattuale. La misura è quella del taglio di 7 punti percentuali di contributi per retribuzioni lorde sotto i 25 mila euro e 6 punti per quelle fino a 35 mila euro. Il provvedimento è decisamente costoso e non strutturale, sebbene si concentri sui redditi medio-bassi, con qualche effetto perverso di disincentivo al lavoro per coloro che sono nei pressi della soglia. Il provvedimento è parente stretto degli “80 euro di Renzi” o dei “100 euro di Conte” ma con il limite di non essere strutturale. Infine, non possiamo dimenticare che il problema principale dell’economia italiana è quello di realizzare aumenti significativi di produttività che potrebbero generare importanti impatti sui salari.
Per concludere, il governo Meloni ha sancito comunque con questa legge di bilancio la propria normalizzazione all’interno della tradizione degli ultimi trent’anni del nostro paese (dal governo Amato del 1992 in avanti) nei quali abbiamo dovuto avere a che fare con la gestione di un alto debito pubblico, di una spesa pubblica che appare sostanzialmente incomprimibile e genera una pressione fiscale insostenibile per la competitività del paese. I provvedimenti strutturali per tenere sotto controllo la spesa pensionistica e la spesa sanitaria, impedendone l’esplosione, sono ciò a cui siamo in parte condannati dalle nostre condizioni di bilancio e dal nostro contesto economico complessivo. Però, senza dubbio, una risposta più robusta al tema della spesa sanitaria andava data e con coraggio.
Le scelte che hanno determinato costi significativi per il nostro bilancio (reddito di cittadinanza, quota 100 e bonus edilizi) sono state ridimensionate o annullate notevolmente (con costi sociali elevati che si determineranno in alcune aree del paese per la mancanza di strumenti alternativi) e ciò ha rafforzato una certa credibilità “rigorista” del governo sui mercati finanziari. Rimane però aperto il tema di come si esce dalla transizione del reddito di cittadinanza. Uno strumento robusto di sollievo dalla difficoltà andava realizzato e purtroppo non pare si voglia implementare nel futuro.
I provvedimenti su cui si è deciso di puntare (taglio del cuneo fiscale, una riforma fiscale poco comprensibile negli obiettivi e poco altro) sono temporanei e sembra quasi impossibile poterli rifinanziare nel prossimo anno, a meno di eventi attualmente non prevedibili. A ciò si aggiunga che l’evasione fiscale non appare all’orizzonte degli interventi del governo e la revisione della spesa pubblica ha un costo politico eccessivamente alto. E l’ora di una seria riforma fiscale e non di provvedimenti temporanei, in cui si sarebbe potuto distribuire diversamente il carico di imposta ed in modo strutturale. Per fare ciò serve una seria lotta all’evasione e l’adozione di interventi di redistribuzione del carico fiscale che sono quasi impossibili per un governo di centro-destra.
Per dare al Paese una prospettiva di crescita di lungo periodo, sarebbe necessario un approccio che, a fronte di una credibilità robusta presso le istituzioni europee (che sono per esempio in attesa della nostra approvazione del MES) e i mercati finanziari che il governo Meloni ha avuto necessità di costruirsi con iniziative socialmente anche molto costose (a cominciare dallo stop al reddito di cittadinanza), sia capace di spiegare al Paese il percorso necessario per realizzare finalmente una strutturale crescita della produttività, che affranchi il sistema dalla trappola dei bassi salari in cui è caduto attraverso la crescita della produttività (il PIL cresce poco e l’occupazione invece aumenta, ma ciò significa che non cresce la produttività), e operando interventi di sollievo sociale strutturali per le aree del paese in difficoltà. Questo disegno appare lontano dall’essere proposto.
(Foto di Mathieu Stern su Unsplash)