Le nuove norme approvate dal Parlamento europeo il 18 dicembre, proprio in coincidenza con la giornata internazionale dei migranti, segnano un visibile arretramento in materia di tutela dei diritti umani. Il governo italiano si è affrettato a salutarle come un successo del suo approccio e un appoggio all’esternalizzazione dell’accoglienza in Albania.

Il quadro politico scoraggiante

Da tempo il linguaggio dominante in Europa in materia di migrazioni, e specialmente di diritto di asilo, è improntato a una linea restrittiva. Il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo approvato dal Parlamento europeo nell’aprile 2024 l’aveva già ufficializzata, pur ammantandola con una retorica molto accorta. Le tre misure ora adottate sono in parte una declinazione operativa del Patto, in parte un’interpretazione che sposta gli equilibri verso un ulteriore indurimento delle regole.

A motivare l’avanzamento della linea della chiusura di Bruxelles convergono almeno due fattori. Il primo è indubbiamente un quadro politico preoccupante, in cui la destra populista miete successi elettorali proprio agitando la paura dell’immigrazione. Oltre all’influenza diretta sulle decisioni di Bruxelles dei governi ostili a immigrati e rifugiati, nei partiti tradizionali del mainstream europeo serpeggia la paura di perdere altro terreno di fronte alle campagne xenofobe. I popolari in Europa votano sempre più spesso con l’estrema destra sulla materia, mentre liberali e socialdemocratici appaiono incerti, divisi e spesso contraddittori.

In secondo luogo, le istituzioni europee devono fare i conti con la percezione di scarsa efficacia delle politiche di controllo dell’immigrazione. Soprattutto i rimpatri funzionano poco: per vari motivi, tra cui la mancanza di accordi con i paesi di origine, vengono allontanati meno del 30% degli stranieri che hanno ricevuto un ordine di espulsione, a loro volta una modesta quota degli immigrati in condizione irregolare. Il Patto europeo del 2024, in una delle sue versioni preliminari, citava la questione dei ritorni oltre novanta volte. Dato il clima politico sopra richiamato, questa difficoltà è diventata un macigno da rimuovere.

La questione dei “paesi sicuri”

Le nuove regole ruotano attorno al concetto di paese terzo sicuro, che compare in due accezioni. La prima si riferisce ai paesi di origine, tra cui alcuni sono definiti sicuri. Per i loro cittadini, quando presentano una domanda di asilo, vengono ora previste misure accelerate di trattamento dell’istanza e trattenimento alla frontiera.  L’obiettivo è quello di respingerli rapidamente, prima che riescano a conseguire una qualche forma d’integrazione sul territorio, mediante il lavoro, le relazioni sociali o altre risorse.

L’UE propone ora un elenco uniformato, invece di quelli nazionali e incoerenti finora adottati. Comprende ora sette paesi, più quelli candidati all’ingresso nell’UE, invece dei 19 del governo italiano, ma l’elenco fa comunque impressione: vi compaiono Bangladesh, Egitto, Kossovo, Tunisia, Marocco, Colombia, India. Il pensiero va alle tante notizie di oppositori incarcerati, manifestazioni represse con la violenza, minoranze perseguitate, in diversi tra questi paesi. Ora una forma deteriore di realismo politico ha indotto Bruxelles a distribuire patenti di buona condotta a quei governi.

La seconda accezione riguarda i paesi che l’UE vorrebbe indurre ad accogliere i richiedenti asilo in vece sua, grazie alla sua influenza politica ed economica. Qui l’elenco si dilata, comprendendo paesi con cui i richiedenti abbiano un legame, attraverso i quali siano transitati, o con cui siano stati stipulati accordi per l’esame delle domande sul posto. L’UE muove un passo in direzione di una misura simile a quella delle deportazioni in Ruanda che i governi conservatori del Regno Unito volevano attuare, in anni nemmeno lontani, e che avevano suscitato condanne e proteste.

Ma il pacchetto comprende una disposizione ancora più grave, dal punto di vista della tutela dei diritti umani: la possibilità di espellere gli immigrati sgraditi verso paesi terzi, aggirando così la resistenza di molti governi a riaccogliere i propri cittadini: una misura che ricorda le deportazioni di Trump verso El Salvador.  Gli immigrati che non accetteranno il rimpatrio “volontario” rischiano di finire in paesi poveri, privi di servizi e opportunità, lontanissimi sia dal loro paese sia da quello che intendevano raggiungere. Entra nel lessico delle politiche migratorie il concetto di return hubs. La volontà di deterrenza comporta la condanna a una vita di stenti, e forse alla morte. È la conferma che volendo contrastare l’immigrazione indesiderata si comprime la tutela dei diritti umani, non diversamente da quanto sta facendo Trump negli Stati Uniti.

Le contraddizioni della strategia europea (e il caso italiano)

Si è parlato poco invece in Italia di un altro aspetto delle nuove regole: il rafforzamento dell’obbligo dei paesi di primo ingresso a riaccogliere i richiedenti asilo che si spostano verso altri paesi dell’UE, ossia i cosiddetti “dublinanti”. L’Italia, che ha visto partire gran parte dei richiedenti asilo giunti dal mare, rischia ora di veder aumentare il numero delle persone da accogliere, contro la loro e la nostra volontà.

Quanto alla legittimazione del “modello Albania”, occorre distinguere: c’è consonanza tra gli inasprimenti varati dall’UE e la visione del governo Meloni, ma il nesso con l’istituzione di centri di accoglienza fuori dai confini non compare. Infatti, tra le pieghe delle dichiarazioni più circostanziate, emerge l’idea che le nuove regole faciliteranno il riconoscimento della soluzione albanese, il che significa che ancora non l’autorizzano. Tra l’altro le nuove norme entreranno in vigore, se non verranno fermate dalla giustizia europea, nel luglio 2026. Come minimo, contrariamente al solito, il governo si è mosso con un anticipo costoso e ingiustificato.

Ma tutta la preoccupante impalcatura messa in piedi nella speranza (a mio avviso mal riposta) di contenere le spinte xenofobe, soffre di un’altra e più seria contraddizione: nell’UE manca manodopera, e lo stesso governo italiano ha varato un decreto flussi per consentire quasi 500.000 nuovi ingressi tra il 2026 e il 2028. Almeno sulla carta, perché poi le procedure sono così contorte e macchinose da scoraggiare i datori di lavoro e produrre irregolarità. Sta di fatto, e gli imprenditori ora lo ammettono apertamente, che quei vituperati migranti entrati senza permesso sono giovani e atti al lavoro. Sono una risorsa, anziché una minaccia. Abbiamo bisogno di accoglierli meglio, in un quadro di regole realistiche, non di scacciarli con ogni mezzo.

(Foto di Sara Prestianni / Noborder Network, commons.wikimedia.org)

  • Maurizio Ambrosini

    Maurizio Ambrosini è docente di Sociologia delle Migrazioni nella Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano. Insegna anche all’Università di Nizza ed è responsabile scientifico del Centro studi Medì-Migrazioni nel Mediterraneo di Genova.