È matto da legare, ma sa accendere il pensiero e le emozioni come fanno le persone (fuori)serie. Conosce l’arte della poesia che incanta e ammutolisce, svariando dal riso al pianto, ha la gestualità degli zanni e delle vecchie maschere della commedia dell’arte. Roberto Benigni è un malin-comico dalla fisicità meccanica e dal battito di animale scenico, che non si nega la spiritualità. Quella spiritualità di chi non si accontenta delle certezze e si lascia vivere ma si apre alle grandi domande poste dalla vita.
Clown, folletto, giullare, buffone, Falstaff mai cortigiano che fustiga la tracotanza del potere, guastatore di tinelli e belle maniere, ma anche compagnone da bricconate e sberleffi. In cinquant’anni di onorata carriera su palcoscenici e set ha mutato pelle, ma non l’anima, fedele a quella che è la regola del suo talento: la capacità straordinaria di coniugare il minimalismo quotidiano, la coscienza di chi ha sperimentato la povertà biografica e il dolore, senza per questo mai dimenticare la cultura della gioia, con i grandi temi universali dell’impegno etico e civile, mettendo a confronto la fede degli umili con la scienza, la grana grossa e materiale del divertimento con gli interrogativi il trascendentali. Benigni è stato il contadino di Televacca che dalla sua stalla si inseriva piratescamente nelle frequenze televisive nazionali, l’improbabile critico cinematografico ne L’altra domenica di Renzo Arbore, il cantore dell’Inno del corpo sciolto alla faccia dell’intestino pigro, il ridanciano attentatore che cerca di palpeggiare le pudenda di Pippo Baudo e Raffaella Carrà davanti alla platea televisiva, il romantico militante della Casa del Popolo che in un film di Giuseppe Bertolucci prende in braccio uno stranito Enrico Berlinguer. Benigni è l’attore e il regista di un cinema che meriterebbe un discorso a parte e che è stato premiato con il picco dell’Oscar (La vita è bella) e con le chiamate di Fellini e Woody Allen, ma soprattutto un affabulatore disceso dai lombi della miglior tradizione del teatro-racconto e che non ha alcuna remora ad affrontare il delicato spessore del sacro e del politico. Già il suo Mario Cioni di Televacca si poneva domande su Dio, poi abbiamo ascoltato la recita del Padre nostro ne La tigre e la neve, cui sono seguiti i monologhi su Dante, la Bibbia, i Comandamenti, la Costituzione…
Il suo ultimo recital, solo poche sere fa, è stato Pietro. Un uomo nel vento, sullo sfondo dei Giardini Vaticani. Prendendo spunto dalle parole dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli, Benigni ha ripercorso la vita dell’apostolo e del primo pontefice. “Le cose più importanti della vita – ha premesso – non si apprendono e non si insegnano, si incontrano”. Ed è un incontro seminale infatti quello tra Gesù e il suo discepolo prediletto. Un incontro tra due ragazzi nemmeno trentenni, due ragazzi delle via Pal di Galilea (contrariamente alla vulgata iconografica che raffigura sempre Pietro come un vecchio calvo e dalla barba bianca). Il Pietro di Benigni è tutt’altro che un saggio canuto e ponderato, come si potrebbe immaginare. È un uomo che non sa frenare qualche scatto di rabbia, non nasconde la sua fragilità umanissima (arriva a tradire ben tre volte Gesù nelle ore buie della Passione), è uno di noi: sarà il caposaldo della futura Chiesa.
Le Sacre Scritture sono uno straordinario casellario romanzesco, un giacimento di storie che ci riguardano con al centro Gesù, figura carismatica e rivoluzionaria. “Dove passa lui – riporto a braccio le parole di Benigni – non resta in piedi niente: le vecchie idee, i vecchi valori, le tradizioni e i loro custodi… Perché Gesù non è venuto a creare una nuova religione, no: ce n’erano già troppe. È venuto a cambiare radicalmente la vita, a rovesciarla! Distrugge il mondo vecchio per crearne uno nuovo. E se la prende con tutti, senza guardare in faccia nessuno: farisei, scribi, sacerdoti, mercanti… Per lui il potere non esiste, non significa nulla. Come quando si rivolge ai sacerdoti e dice loro: ‘In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio’… ‘Ama il tuo nemico’ è forse la frase più sconvolgente mai pronunciata sulla faccia della Terra. Forse è la parola più forte, più alta di tutto il pensiero umano, e per questo ci sembra irraggiungibile: se ne sta lassù, è troppo alta, non ce la facciamo. Però qualcuno l’ha detta, per sempre!”
Per due ore intense e filate Benigni ha sciorinato la sua narratività epica, agonistica, appassionata, rivolgendosi all’intelligenza del cuore, comunicando e condividendo con il pubblico il suo stesso stupore davanti al testo. Come se dicesse: questo è il mio corpo, prendete e mangiatene tutti… Senza nessuna postura teologica togata, ma con autorevolezza esegetica e filologica che non fa una grinza. Da affabulatore consumato, che conosce la tempistica del racconto, con le sue accelerazioni e i suoi ralenti, con la leggerezza e l’umorismo. Vincenzo Cerami, suo fido sceneggiatore, ricordava che i grandi comici sono matematici. Benigni è un toscano e i toscani sono petulanti e accaniti nell’applicazione. “Siciliani si nasce, toscani si diventa”, ricordava Mino Maccari, “fascista di sinistra” che poi divenne indigesto ai camerati fino ad essere espulso dal partito.
Pietro. Un uomo nel vento ha tenuto incollati al piccolo schermo circa quattro milioni di telespettatori. Un record in questi anni di dispersione dell’ascolto nell’arcipelago di antenne e piattaforme. Non sono mancati però i detrattori. C’è chi non dimentica il passato trasgressivo di Benigni, chi non ha mai smaltito vecchie scorie ideologiche, chi non sopporta alcuni suoi tormenti che possono mettere a repentaglio la piramide tetragona dell’ortodossia. “Non esiste una grande fede senza il dubbio”, ha detto e ribadito il Nostro. E il dubbio rimane una minaccia laica e sofferta. In Cerrar los ojos (2023), splendido film di Victor Erice – su Raiplay, se non l’hanno tolto – uno dei protagonisti afferma: “Sono un praticante, non un credente”. Bellissima testimonianza di fede, in cui la parola è scrigno di senso. Il praticante non è un novizio che si impratichisce, ma uno che vive e incarna la sua fede nel presente, guardando al futuro della fede degli altri. Certo, non è facile cancellare l’ego nell’età della specchiocrazia. Ci conforta solo Dostoevskij: piuttosto che una felicità da quattro soldi, meglio una sublime sofferenza.
(Foto di Roberto Vicario – wikimedia.org)

