Con la presentazione del ddl 1722 proposto da Graziano Delrio e altri senatori del Pd, siamo a ben quattro testi presentati nella XIX legislatura in materia di “lotta all’antisemitismo”. Gli altri sono firmati dal leghista Massimiliano Romeo (1004), dal renziano Ivan Scalfarotto (1575) e dall’ex missino Maurizio Gasparri (1627). I quattro ddl sono per molti versi piuttosto simili tra loro, con forte enfasi sul ruolo delle istituzioni educative nel contrasto all’antisemitismo. In particolare, quello di Gasparri prevede esplicitamente sanzioni per docenti di scuola e di università che si rendano colpevoli di “violazione dei doveri di prevenzione e segnalazione” e una modifica del codice penale.
Delrio sembra voler intervenire per depotenziare alcuni rischi insiti nei ddl di centrodestra, puntando forse a diventare un più accettabile punto di caduta tra le varie forze politiche: da un lato non modifica il codice penale, non introduce nuove fattispecie e non inserisce aggravanti come fa Gasparri; dall’altro dedica ampio spazio alla diffusione in rete di contenuti antisemiti, riconoscendolo come il terreno in cui maggiormente si manifestano le forme contemporanee di antisemitismo – citando a sostegno di questa preoccupazione i dati pubblicati annualmente dall’Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec); infine, a differenza dei ddl Romeo e Scalfarotto che attribuiscono alla presidenza del Consiglio il compito di determinare le misure da adottare, Delrio prevede che il governo (e non solo Palazzo Chigi) adotti misure di regolamentazione delle piattaforme online. Le scuole e le università sarebbero monitorate rispettivamente dal ministero dell’Istruzione e da “un soggetto preposto alla verifica e al monitoraggio delle azioni per contrastare i fenomeni di antisemitismo”. Sarebbe dunque ridotta la centralizzazione della verifica sui comportamenti considerati antisemiti.
Nel complesso, dunque, si prevede un chiaro incremento del controllo, a seconda dei diversi testi molto pervasivo o solo accennato, sulle scuole e le università – istituzioni peraltro già soggette ad altre forme di pressione per limitarne l’autonomia.
Ma cosa intendono per antisemitismo i testi in questione? Tutti e quattro recepiscono la “definizione operativa” di antisemitismo adottata dalla International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra) – istituzione che nei quattro testi è tradotta in italiano con “Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto”, con la peculiare scelta di non tradurre “Holocaust” con “Shoah”, com’è d’uso da molti anni tra gli studiosi della materia. Ed è questo il punto più problematico, che, al di là delle sanzioni qua e là previste, accomuna tutti i ddl.
L’IHRA e la “definizione operativa”
L’Ihra è un’organizzazione intergovernativa con 34 paesi membri (perlopiù europei, oltre a Israele e ad altri paesi occidentali), che nel 2016 approvò una “definizione operativa di antisemitismo”, a sua volta frutto di un percorso cominciato un decennio prima all’interno delle istituzioni europee. La definizione fu richiamata e raccomandata dal Parlamento europeo nella risoluzione 2692 del 2017 e in generale divenne un documento fortemente promosso e diffuso tra i governi di diversi paesi occidentali. Il testo approvato dall’Ihra recita: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può esprimersi come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche dell’antisemitismo sono rivolte contro individui ebrei o non ebrei e/o i loro beni, contro le istituzioni della comunità ebraica e gli edifici religiosi”.
A questa definizione di base largamente condivisa, l’Ihra aggiunge alcuni esempi pratici: sette di questi undici esempi riguardano Israele – nella relazione introduttiva al ddl Delrio, si fa esplicito riferimento agli undici esempi collegati alla “definizione operativa”, includendoli dunque nelle fattispecie prese in considerazione per definire l’antisemitismo.
In alcuni di questi esempi è evidente la matrice antisemita della critica a Israele: “utilizzare simboli e immagini associati all’antisemitismo classico (ad esempio, le affermazioni secondo cui gli ebrei avrebbero ucciso Gesù o la calunnia del sangue) per caratterizzare Israele o gli israeliani” è un caso inequivocabile. In altri invece si citano casi discutibili o perfino odiosi (“affermare che lo Stato di Israele è una impresa razzista”, “paragonare la politica israeliana a quella nazista”, “applicare doppi standard [a Israele] esigendo un comportamento che non ci si aspetta o non si pretende da nessun’altra nazione democratica”), ma concettualmente non riconducibili a una matrice antisemita. Dunque, in caso di adozione di questa definizione, si potrà continuare ad affermare che gli Stati Uniti e l’Australia sono nati su un progetto coloniale d’insediamento ai danni delle popolazioni native, ma non che lo ha fatto Israele; si potrà continuare a dire che i serbi a Srebrenica e i russi a Bucha si sono comportati come i nazisti a Lidice, ma non che altrettanto hanno fatto gli israeliani a Gaza; si potrà continuare a manifestare contro una guerra o una violazione dei diritti umani di un qualsiasi paese del mondo, ma non di Israele, se il cartellone esposto in piazza non conterrà la lista di tutti i paesi democratici che stanno commettendo crimini di pari livello.
Il ruolo di Israele e dell’estrema destra
Il successo della definizione dell’Ihra è in parte spiegato dal contesto in cui l’organizzazione si è mossa: quello cioè di una progressiva risignificazione del concetto di antisemitismo, in cui la dimensione politica del legame con Israele ha preso il sopravvento sulla matrice razzista e religiosa. In questo ha avuto un ruolo la posizione del governo di Tel Aviv, auspice l’intellettuale ed ex dissidente sovietico Natan Sharansky, più volte ministro, impegnato nel consolidare l’idea che il “nuovo antisemitismo” coincida con l’ostilità verso Israele. La lunga stagione della destra al governo di Israele ha rafforzato questo approccio, spingendo le autorità israeliane non solo a sostenere l’equivalenza tra antisemitismo e critica al governo di Israele, ma ad appoggiarsi in questo a un vasto fronte di partiti politici di estrema destra. La “definizione operativa” dell’Ihra è stata lo strumento con cui partiti di destra eredi più o meno diretti dei nazifascisti o dei loro collaboratori, oppure negazionisti delle corresponsabilità morali delle società civili compiacenti o silenti di fronte alla Shoah, hanno colto l’occasione per riposizionarsi in materia di antisemitismo senza però riflettere sul proprio passato. Un caso tipico è quello della destra polacca al governo che ha adottato ufficialmente la definizione Ihra, mentre approvava una legge (poi ritirata per incostituzionalità) che prevedeva il carcere per chi, anche nel mondo accademico, avesse attribuito ai polacchi corresponsabilità nella Shoah. O ancora della destra ungherese, che all’adozione della definizione Ihra ha accompagnato violente campagne piene di cliché antisemiti contro la presunta minaccia nazionale rappresentata dal finanziere e filantropo ebreo George Soros. Anche grazie alla convergenza con la destra israeliana, l’Ihra è diventata la foglia di fico delle destre estreme, spesso antisemite, europee e occidentali. Precisiamo occidentali: non è un caso, infatti, che le posizioni dell’Ihra sembrano non attecchire nel resto del mondo, in Africa o in Asia, in cui l’assenza di responsabilità morali dirette o indirette nella persecuzione antisemita negli anni Trenta e Quaranta non rende urgente aggirare la riflessione storica con lo stratagemma dell’adesione acritica alle politiche israeliane.
Le alternative alla definizione Ihra
L’ambiguità della “definizione operativa” dell’Ihra spinse un nutrito gruppo di studiosi e studiose della Shoah, di storia ebraica e di storia mediorientale provenienti dal mondo accademico israeliano e internazionale a proporre una definizione alternativa di antisemitismo, in cui i riferimenti a Israele riguardano casistiche molto specifiche, meno generiche di quelle previste dall’Ihra. Si tratta della Jerusalem Declaration on Antisemitism del 2021, una definizione più accurata sul piano concettuale e maggiormente aderente agli standard del dibattito accademico, ma politicamente non sostenuta né dal governo israeliano né da altri governi occidentali. Sempre nel 2021 venne alla luce anche un altro documento, redatto dal Nexus Project, una Ong americana costituita da accademici ed esperti, specializzata nella lotta all’antisemitismo, che ha delineato linee guida per distinguere i comportamenti antisemiti e quelli semplicemente riconducibili a una critica allo Stato di Israele.
Insomma, la scelta di adottare la definizione dell’Ihra è puramente politica, non ha fondamento scientifico unanime ed è foriera di conseguenze preoccupanti per la libertà d’opinione, la libertà educativa e la libertà scientifica, garantite dall’art. 33 della Costituzione – il ddl Delrio, forse nella consapevolezza del rischio insito della definizione Ihra, fa esplicito riferimento al dettato costituzionale, apparendo in questo però contraddittorio. Il nodo, più che nella definizione in sé, risiede nell’uso che governi e istituzioni possono farne, specie quando la trasformano in uno strumento per delimitare il campo del discorso pubblico sulla politica israeliana. È vero che una specifica azione per combattere l’antisemitismo in crescita nelle nostre società richiede convergenza sulla definizione del fenomeno, ma la fretta di adottare un documento così controverso e ambiguo denuncia certamente una scarsa propensione della politica a rapportarsi con quel vasto mondo di studiosi, accademici e non, che avrebbero potuto presentare le diverse implicazioni delle varie definizioni attualmente dibattute dagli esperti. La reazione di una parte del mondo intellettuale (anche ebraico) progressista, che ha pubblicato l’appello rilanciato anche sulla nostra rivista, proprio dopo l’annuncio dell’iniziativa Delrio, sembra accusare lo scollamento perfino di un’area considerata vicina con il dibattito italiano e internazionale in una materia così delicata. Ma aggiunge la preoccupazione che i ddl, al di là delle intenzioni dei proponenti, possano addirittura produrre effetti controproducenti.
(Foto di Benny Rotlevy su Unsplash)

