La guerra in Ucraina, che dura da tre anni e mezzo, è stata finora tenuta con una certa attenzione a livello locale, nonostante il forte coinvolgimento occidentale nel sostegno e finanziamento a Kyiv. La novità degli ultimi mesi è che sembra sempre più minacciosamente aperta ad un allargamento possibile. I vertici Nato ed Ue si esprimono ormai con un linguaggio che parla di guerra in modo insopportabilmente leggero. Il piano di riarmo europeo pudicamente ribattezzato Readiness è mirato esplicitamente a una guerra possibile con la Russia di Putin. In vari paesi, autorevoli militari di alto grado dicono che occorre prepararsi a una guerra nel giro di due-tre anni. Di più: una “guerra ibrida” secondo molti è già in corso: volano i droni attraverso i confini dei paesi della Nato e le provocazioni si susseguono, fino a incidenti sempre più pericolosi. Si parla ormai di abbattere oggetti volanti estranei. Mentre Putin riprende il concetto più volte espresso secondo cui fornire l’Ucraina con missili a lungo raggio verrebbe preso come un atto ostile della Nato.
C’è chi torna a usare a piene mani la metafora della guerra fredda. In realtà a me sembra la situazione evochi di più un altro paragone storico: la Belle Époque prima del 1914. Non è una metafora originale: è corsa nel dibattito europeo (e atlantico) già da qualche anno, l’hanno sostenuta autorevoli intellettuali. Il presidente Mattarella ha evocato il “crinale” pericoloso di quell’anno nella sua visita in Slovenia. Ogni giorno emergono elementi che rafforzano questo paragone. Proviamo ad approfondirlo minimamente.
Le analogie con il clima epocale del 1914
In quel momento si veniva infatti da quarant’anni di pace europea e di sviluppo economico capitalistico intenso e particolarmente integrato (qualcuno parla – anche se sulla formula si può discutere – di una “prima globalizzazione”). Il giornalista Norman Angell aveva dato fiato alla mentalità diffusa, quando nel 1910 aveva scritto un libro, La grande illusione, in cui teorizzava che ormai i legami economici avevano reso i rapporti tra gli Stati e i paesi così stretti e intrecciati che non sarebbe più stato possibile immaginare una guerra europea. Del resto, erano cent’anni che l’Europa non conosceva grandi guerre globali (e precisamente dall’era napoleonica, i cui conflitti vennero allora definiti “la grande guerra”): la memoria di tali sconvolgimenti si era quindi allontanata e questo non fu un elemento da trascurare nella mentalità collettiva. Non erano mancati episodi di guerre limitate, localizzate e circoscritte (quelle dell’unità italiana e tedesca, esempio preclaro). Ma appunto sembravano intermezzi di violenza, guidati da finalità politiche chiare e definite, e quindi controllati per quanto riguardava forme e conseguenze. Gli Stati europei erano al centro del mondo, con estese reti imperiali e sembravano condividere un benessere diffuso e un clima di estesa convergenza della cultura e dei valori. Addirittura, il costituzionalismo e il concetto di nazione si estendevano anche verso i vecchi imperi dinastici dell’oriente europeo. Certo, la competizione tra questi Stati-nazione era serrata, ma appunto sembrava ricondotta soprattutto alla sfera della capacità economica di primeggiare e arricchirsi e a quella politica della diffusione di una “influenza” alternativa a quella dei concorrenti.
Esattamente analogo il clima del “nuovo ordine liberale” (questa volta globale, non più solo europeo), da cui usciamo in questi anni: il dominio della globalizzazione e dell’integrazione economica mondiale (quella specificamente così definita, affacciatasi negli anni ’80 del Novecento), il cosmopolitismo che si illudeva di aver ormai superato i conflitti ideologici del passato in una condivisione essenziale di valori e scelte, il primato della democrazia pacificamente estesa a tutto il mondo, il rispetto condiviso dei diritti umani. Il mito della nuova “pace perpetua” possibile, affidata alla spontaneità della “fine della politica”, è corso ampiamente a cavallo dei due secoli. Anche in questo caso, ormai ottant’anni ci separano dall’ultima grande guerra globale e la memoria della tragedia della seconda guerra mondiale (o addirittura del trentennio delle guerre mondiali) si è inevitabilmente sbiadita. In modo ancora analogo, non tutto è proprio coerente. La bolla concettuale e politica del “nuovo ordine mondiale” si è indubbiamente rivelata azzardata e insostenibile nella sua radicalità: le guerre statunitensi e la crisi finanziaria ne hanno reso incerte le basi stesse. Ma non è infrequente che qualcuno ancora pensi che quelli siano stati incidenti di percorso in un processo in fondo irreversibile.
La questione della guerra: come emerse nel 1914?
Nei primi anni del ‘900 si parlava di guerra? Certo, tale spettro non mancava, anche se la cultura diffusa la esorcizzava, come abbiamo notato. Esisteva una competizione tra Stati (le cinque grandi potenze d’Europa), che si aggirava attorno al tema dell’equilibrio tra di loro, delle rispettive aree di influenza, delle dimostrazioni di potenza politica. E rispetto a questo orizzonte la guerra non era esclusa: anzi, era una possibilità studiata, prevista, messa a tema. Era nato un bipolarismo di due grandi alleanze difensive (Triplice alleanza austro-tedesco-italiana e Duplice franco-russa) che intendevano prevedere tutte le possibilità e migliorare le proprie condizioni in caso di deprecabile ma possibile scoppio di una guerra. C’erano tecnici e alti gradi militari al servizio dei sovrani e dei governi, spesso sconosciuti alle opinioni pubbliche, che costruivano piani sofisticati da attuare in caso di una guerra futura. Un processo cospicuo di riarmo aveva attraversato sistematicamente gli ultimi decenni di pace. E c’era una mentalità diffusa per cui la mobilitazione degli eserciti per una guerra era vista come una cosa magari non esaltante, ma a cui nessuno avrebbe potuto sottrarsi. Anzi, alcuni sciagurati intellettuali proclamavano baldanzosi che “la guerra è la sola igiene del mondo” (copyright Filippo Tommaso Marinetti).
Certo, nelle previsioni e nelle attese, si trattava di una guerra parametrata all’esperienza recente delle guerre bismarckiane: cioè una guerra che si immaginava risolta con una grande battaglia campale – ovviamente prevista più agevole in una stagione estiva – che approdasse a mutare le condizioni politiche e si chiudesse con un rapido negoziato di pace. I brevi entusiasmi dell’estate del 1914 che corsero in vari paesi (in una minoranza borghese, ovviamente) questo e non altro celebravano. I milioni di fanti contadini ed operai mandati poi al macello osservarono magari un più rassegnato sentimento di obbedienza che un giocoso e irresponsabile coinvolgimento nell’ondata bellicista (con successivi episodi non banali di protesta, quando si capì che la guerra sarebbe stata ben altra cosa).
Pressoché nessuno tra i monarchi e gli statisti voleva esplicitamente e determinatamente la guerra. La favola inventata a Versailles della “colpa tedesca” fu evidentemente una foglia di fico politica, costruita a posteriori dai vincitori. Ma più o meno tutti si erano preparati a questa eventualità: il libro di Clark intitolato I sonnambuli, con riferimento agli statisti del 1914, ha riscosso successo, ma usa una metafora sbagliata. Non si navigava a vista: c’era la consapevolezza del rischio. Certo, poi alcune condizioni dell’epoca produssero automatismi. Le alleanze difensive bipolari misero la premessa per cui una crisi locale potesse rapidamente estendersi. Tanto più con un bipolarismo abbastanza paritario, in cui l’incertezza sull’esito di un conflitto (resa più marcata dalla scelta britannica di restar fuori da alleanze permanenti in tempo di pace) divenne un elemento di ulteriore apertura alla possibilità di provare lo scontro: nessuno dei due raggruppamenti era certo della vittoria, ma nemmeno temeva troppo la sconfitta. E inoltre, in ognuna delle due alleanze c’era un partner più fragile (Austria e Russia) che non era facilmente controllabile dal partner più forte: un altro tassello che condizionò la crisi.
L’elemento finale (e decisivo) era stata una diplomazia tecnicamente definita di brinkmanship: cioè mirata a intimidire l’avversario minacciando la guerra, spingendosi a cercare vantaggi politici fino all’orlo di uno scontro, cercando di evitare di superarlo, ma mettendo nel conto anche la possibilità eventuale di oltrepassare quel limite. La crisi del 1914 era nata su una questione locale come quella dei nazionalismi slavi sfidanti l’impero asburgico (l’assassinio di Sarajevo), e avrebbe potuto essere circoscritta come quelle precedenti e ricorrenti, del 1905-06, del 1908, del 1912. Ma non lo fu, perché i protagonisti decisero alla fine di non fermarsi di fronte alla minaccia ultimativa della guerra, per ragioni politiche percepite come vincolanti. Si diffuse un senso di ineluttabilità negli ultimi giorni della crisi. I vantaggi politici cercati sfumarono ben presto in appelli generici e assoluti alla “salvezza della patria”, all’”evitare umiliazioni inaccettabili”, al “mantenere la propria influenza esterna”.
Il punto essenziale è che poi la guerra si rivelò essere qualcosa di totalmente diverso da quello che si attendeva. Per ragioni soprattutto relative all’avanzamento non omogeneo delle strutture tecnico-militari (rapida crescita della potenza di fuoco, contro limitati miglioramenti della capacità di spostamento degli eserciti e di controllo del territorio), il conflitto divenne una guerra di trincea, di logoramento duraturo, di enorme dispendio di risorse umane e materiali. La prima guerra di massa, con la mobilitazione dei civili, dell’economia e della società. E anche la prima guerra totale (perché per reggere la drammaticità dello scontro occorreva alzare l’asticella delle finalità della guerra, fino al linguaggio estremo della “patria in pericolo”). La guerra reale non è mai come quella studiata a tavolino.
E oggi come si guarda all’ipotesi di una guerra?
Come nel 1914, una crisi locale (ucraina) è già in corso. Questa volta è già trascesa in una guerra, seppur locale, ma con il coinvolgimento russo, cioè di una potenza rilevante. L’allargamento di cui oggi si parla sarebbe a scoppio ritardato, ma su un solco già tracciato. Il timore di questo sviluppo è affidato, ora come allora, alla rappresentazione di un avversario che abbia intenzioni sempre più negative e alla fine assolute (l’aggressività della Nato per Putin, l’imperialismo russo per i dirigenti europei).
Anche oggi il riarmo proclamato e iniziato rafforza l’idea che la guerra entri nella dimensione del possibile. Le dimensioni dello sforzo economico in corso da parte russa sono enormi, rispetto alle condizioni limitate della sua economia. Sul piano Readiness della Unione europea abbiamo già detto qualcosa su questa rivista. Ma in sintesi, si può ripetere che prevede una conversione massiccia di investimenti nel settore militare che è improbabile che si possa realizzare nelle forme e nelle dimensioni propagandisticamente proclamate. Tanto più che – come qualcuno ha osservato – in Europa la temperie favorevole al riarmo è recente e viene (vivaddio) dopo anni di limitazione delle spese militari. Tuttavia, la crescita della spesa è già cospicua in molti paesi europei: nelle ex democrazie popolari più che altrove, ma soprattutto il caso tedesco è una novità cospicua in questa direzione.
Non c’è però oggi il bipolarismo simmetrico del 1914. L’aggressività di Putin non ha le carte economiche e diplomatiche, oltre che militari, per immaginare di reggere a uno scontro esteso: la potenza soverchiante della Nato non è in discussione. Vero che si è inserito un elemento di incertezza, quasi parallelo a quello costituito dal comportamento del governo di Londra nel 1914: la presa di distanza ostile degli Stati Uniti di Trump rispetto all’Europa e l’ondivago comportamento della prima superpotenza. Naturalmente un’Europa senza l’appoggio americano è più fragile, ma pensiamo davvero che possa essere in imbarazzo (ancora una volta sia militarmente che economicamente) di fronte alla Russia attuale? La quale è isolata, nonostante le sponde occasionali con paesi esterni all’Europa (dalla Cina, all’India), che non sono in nessun modo considerabili come suoi alleati strategici, disposti a sostenerne le avventure militari putiniane in una guerra globale. Su questo aspetto, non è in gioco la (possibile) volontà bellicista dei governi (o degli autocrati), ma il realismo delle valutazioni.
Dobbiamo poi dire che la cultura diffusa sembra infinitamente meno disponibile che nel 1914 a farsi mobilitare dietro un appello militarista: non a caso gli stessi leader più scafati della destra sovranista-nazionalista si guardano bene dallo sposare posizioni che facciano pensare all’ipotesi di mandare al fronte i propri cittadini (e le proprie cittadine: c’è uguaglianza di genere ormai negli eserciti, nevvero)? L’acquiescenza all’appello alla guerra non è più affatto scontata (forse nemmeno in Russia, dove abbiamo testimonianza di emigrazioni cospicue e di fasce di renitenza alla chiamata alle armi).
Quanto alla diplomazia, per ora non siamo alla brinkmanship. Come nel 1914, peraltro, gli obiettivi politici da ottenere con la minaccia di una guerra non sono stati espressi in modo ben chiaro né da una parte né dall’altra. E questo richiama i discorsi pericolosamente sottoposti alle spirali di radicalizzazione: più si alza la posta (“salvare la propria faccia”), più cresce il rischio. Tanto più che al posto di una diplomazia spregiudicata sembra manifestarsi una debolezza, o forse l’assenza, di una qualsiasi diplomazia forte. Da ambedue le parti: quella russa è ovviamente più difficile da indagare, mentre molto modesta appare quella europea, che finora si sia esercitata sulla crisi ucraina.
La guerra di cui si parla come si prospetterebbe? Non potrebbe che essere una guerra di vaste dimensioni, anche oggi. Avrebbe dimensioni globali in Europa e forse potrebbe addirittura uscire dai limiti europei. Potrebbe essere drammaticamente distruttiva, perché la logica degli strumenti militari ancora una volta potrebbe debordare rispetto alle previsioni (troppo spesso ricalcate sul passato). Due settori sembrano particolarmente a rischio. Il primo: ha tenuto finora il tabù atomico che si è instillato dopo i morti di Hiroshima e Nagasaki, nel timore della “distruzione reciproca assicurata”. Ma abbiamo certezze sul fatto che la deterrenza reciproca sul ricorso a questa arma spaventosa sia stabile e sicura? Il secondo: siamo proprio sicuri che gli aspetti non convenzionali della guerra (hacker e affini) possano essere tenuti sotto controllo e non causare difficoltà sconosciute alle nostre società tutte, così sofisticate e così fragili, nel caso di un conflitto?
Evidenze e problemi aperti
Quindi, possiamo dire che il 2025 richiama per molti aspetti il 1914, ma alcune diversità sono piuttosto chiare. Queste ultime rendono probabilmente più difficile lo scivolamento verso una guerra ampia in Europa. Tuttavia, tale coscienza non ci rassicura. Anzi ci impegna – dovrebbe impegnarci – a un approccio molto attento a diverse dimensioni delicate.
Il primo obiettivo sarebbe decostruire il discorso sulla guerra possibile. La diffusione di un linguaggio bellico è spesso il primo passo per assuefare le opinioni pubbliche e le società alla tragedia possibile. Abbiamo detto che l’obbedienza agli ordini militari è oggi tema molto meno condiviso che in passato, nelle democrazie europee. Ma non trascuriamo gli effetti della comunicazione attuale e delle bolle social in questa direzione. Alzare il livello delle minacce e radicalizzare la posta in gioco nel campo immateriale delle immagini è un elemento pericolosissimo, proprio perché poco quantificabile e scarsamente negoziabile. Occorre invece, come non si è stancato di ripetere papa Francesco e sta ripetendo papa Leone, disarmare le parole, gli spiriti, le culture.
Occorre poi controllare le decisioni per il riarmo, le rigidità delle alleanze, le spirali delle ritorsioni economiche, per evitare che la tecnica scappi di mano alle classi dirigenti, costruendo elementi che in qualche modo poi condizionino le decisioni politiche. Beninteso: non si deve pensare che il nesso sia automatico (del tipo: se ci sono le armi, prima o poi bisogna usarle). La storia è quasi sempre più complicata di così. Ma i vincoli di fatto sono spesso più pericolosi di come appaiono, perché incidono sui processi decisionali, proprio quando le crisi peggiorano, come successe nel 1914.
Inoltre, occorrerebbe almeno evitare di spaccare l’Europa sul più o sul meno del riarmo e della propaganda antirussa. Una compattezza dell’Unione (oppure almeno – lo si è detto tante volte – di un suo nucleo forte) potrebbe aiutarla ad affrontare le questioni con una determinazione e solidità parallela al proprio potenziale di influenza globale, che sul piano economico e politico è molto più alto di quello russo. Un nucleo politico di guida solida europea, con la barra diritta, avrebbe un altro ruolo: evitare il rischio di farsi trainare dalle posizioni, magari anche comprensibilmente più ansiose, dei paesi orientali europei più vicini alla Russia. Come nel 1914, i soggetti più fragili influenzano sempre le alleanze. Contrariamente al 1914, quelli più forti dovrebbero poterli controllare e contenere.
Infine, si pone l’urgenza di riprendere una diplomazia costruttiva, partendo dai nodi ucraini. Cioè dalle questioni locali, trascurate nel loro possibile effetto globale dirompente centodieci anni fa. Non è mai troppo ripetuto che il punto in gioco non sarebbe a questo proposito il “cedimento” di Kyiv o la presa d’atto di una vittoria russa. Il punto sarebbe trovare un ragionevole terreno di tregua e d’intesa che, sostenendo le ragioni ucraine e comprendendo alcuni aspetti delle esigenze russe, depotenzi la pericolosità globale della questione ucraina. Con gli ucraini, naturalmente, non alle loro spalle, ma convincendo anche il governo ucraino sul peso delle questioni globali in gioco. Va da sé che l’ondivago ruolo di Trump oggi non aiuta in questo campo. Ma se l’Europa pretende di poter fare a meno dell’ombrello militare americano, dovrebbe anche acquisire finalmente una propria maturità politica.
(Foto: The Menin Road, quadro di Paul Nash che raffigura un campo di battaglia della prima guerra mondiale – wikimedia.org)


Rimango molto sorpreso nel leggere che a parlare di linguaggio bellico, a evocare scenari di guerra, a portarci al rischio di un nuovo 1914 sarebbero la NATO e i paesi occidentali. Quando invece (e da anni) a parlare questo linguaggio di guerra e a minacciare un conflitto anche nucleare è la Russia di Putin, che ha avviato nel 2022 una guerra criminale feroce e vigliacca contro l’Ucraina. Una guerra che ha continuato e che ha tutte le intenzioni di continuare, con crimini di guerra, bombardamenti mirati sui civili e distruzione di infrastrutture energetiche, che evidentemente non provocano il minimo scandalo. A cui si aggiungono le continue provocazioni russe, con sommergibili russi che girano in acque svedesi, aerei militari russi che violano sistematicamente lo spazio aereo dei paesi NATO, droni russi che sorvolano gli aeroporti di paesi europei. Però a essere militaristi, bellicisti, irresponsabili sarebbero i paesi della NATO. Non so come si potrà risolvere la guerra russa all’Ucraina, ma il primo passo, almeno per iniziare a comprendere quello che avviene, è quello di individuare bene le responsabilità e le colpe. E capire bene da quale paese proviene la minaccia. Che è la Russia di Putin.
Grazie, Andrea Ruini. Per fortuna qualcuno parla chiaro anche qui e denuncia la distorsione prospettica con cui certi ambienti continuano (incredibilmente, per me) a leggere i fatti che stiamo vivendo.
Francamente sono sorpreso della… sorpresa. Negare che ci sia stato e ci sia un “linguaggio minaccioso” da parte della NATO, non credo che sia possibile. Certo la Russia ha una evidente e primaria responsabilità avendo fatto il primo passo: quello dell’invasione dell’Ucraina. Se si guarda però alle origini, alle cause, di questo conflitto, altre responsabilità vanno pure cercate. a partire dal 2014. Quando di fronte ad una crisi apertasi all’interno dell’Ucraina stessa si rifiutarono i cosiddetti Accordi di Mink I e II. Quegli accordi prevedevano larga autonomia per la regione del Donbass, (simili a quelli del nostro Alto Adige), una smobilitazione in quella regione da parte di tutte le parti degli armamenti pesanti. Quegli accordi escludevano l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Certo, .alle porte di casa della Russia. Fu la Germania di Angela Merkel, insieme ad alti a lavorare a quegli Accordi.
Poi le cose sono andate come sappiamo. Ma è evidente che ci sia stato un lavorìo NATO verso (e “in” ) l’Ucraina. Del resto in quegli anni anche Barak Obama arrivò a definire la Russia una “potenza regionale”. Questo senza pensare a definire un’architettura di sicurezza paneuropea. Non è un caso che, oggi, chi pensa ad una possibile soluzione della guerra (a parte l’urgenza di una tregua che interrompa la drammatica violenza di ogni giorno) pensa ad una sorta di conferenza per la pace e la sicurezza II, come quella di Helsinki del 1975. Hic rodus hic salta.
mi chiamo Vito Michele Casamassima. sono contro tutte le guerre. Non mi interessa pensare al 1914 o alla seconda guerra mondiale. le guerre sono tutte una sconfitta a carico di tutta l’umanità. Adesso con gli ordigni nucleari sarebbe una tragedia planetaria. la guerra in Ucraina è una guerra voluta dagli americani che continuano da sempre a provocare la Russia intorno ai suoi confini. in Europa ci sono un po` in tutti i paesi personaggi della politica assolutamente irresponsabili. si continua ancora di questi tempi ad assecondare la politica da gangster degli americani. un popolo governato da dopo la seconda guerra mondiale da criminali. Io ho 78 anni e mi spaventa solo il pensare di questi tempi ad una guerra. Ci dovrebbe creare orrore la guerra solo a pensare la tragedia della Palestina. Guerra voluta e finanziata dai criminali americani. Fermiamoci e proteggiamo il nostro popolo ed il popolo di tutto il Pianeta. Basta
Beh, devo dire che il commento mi conferma che ciascuno legge con gli occhiali che vuole usare. Il tema dell’articolo non è quello delle responsabilità: l’aggressione e l’aggressività russa sono citate e considerate. Ma non sono al centro del ragionamento, semplicemente perché il tema è un altro, Cioè quello delle condizioni “di sistema” che possono o meno far diventare una crisi locale una guerra generale europea. L’analogia storica a questo serve: nel 1914 nessuno fu “innocente” nello scatenamento dell’immane tragedia, anche se se si può discutere di responsabilità specifiche e diverse. Alla fine, però, conta di più l’esito complessivo.