Di recente a Milano si è dato appuntamento un pezzo della minoranza PD. Quella che i media, non senza l’avallo dei promotori, chiamano (troppo) all’ingrosso “riformisti”. Quasi che gli altri ovvero la maggioranza PD o l’altro segmento della minoranza possano essere bollati come massimalisti. Sempre sotto la voce superficialità, nell’occasione, qualcuno ha fatto intendere che Romano Prodi si sarebbe iscritto a quella corrente. Personalmente l’ho intesa diversamente. Prodi, da tempo, auspica che, dentro e fuori del PD, prendano corpo una riflessione e un confronto più serrati e vivaci centrati sui contenuti, sulle linee portanti di una visione e di un programma che accreditino PD e centrosinistra quale convincente alternativa alla destra che ci governa.
Governare il pluralismo interno
Auspicio e sollecitazione sacrosanti quelli del Professore. Tantopiù trattandosi, nel caso del PD, di un partito democratico persino nel nome e nativamente plurale. E che, va detto, un po’ come tutti gli altri, non conosce un’adeguata vita democratica interna nei luoghi a ciò deputati, a cominciare dagli organi di direzione politica, pletorici e convocati di rado. Un partito, il PD, che, semmai, e in forme non sempre composte, è incline alla cacofonia sui media e nelle deliberazioni parlamentari. In particolare, indulgendo alla pratica unanimistica nelle decisioni di partito, anziché a un leale, franco e trasparente confronto che si risolva anche in voti distinti nelle sedi interne al partito. I quali poi, a valle, salvo eccezioni adeguatamente motivate, dovrebbero prescrivere una ragionevole disciplina di partito. In breve: dando prova di praticare regole e costume idonei a governare il pluralismo interno. Facendone, come usa dire, una risorsa e non un problema. Come nei partiti di un tempo degni di questo nome. Dunque, ben venga la discussione. L’importante è che essa si svolga intorno a posizioni politiche chiare e riconoscibili tra componenti (le si chiami pure correnti senza ipocrisia). Ma appunto posizioni politiche. Non cordate personali e di gruppo artificiosamente confezionale al fine di pesare negli organigrammi e nella spartizione delle candidature. Su questi presupposti sia benvenuta un’articolazione delle posizioni.
Riformismo, parola passe-partout
Sia lecito porre qualche interrogativo volto a meglio comprendere il punto di vista dei convenuti a Milano. Il primo quesito lo abbiamo già accennato: si dovrebbe avere cura di non contentarsi della cifra di “riformisti” e tantopiù di non intestarsene l’esclusiva. Parola o aggettivo passe-partout. Anche la destra si professa tale. La domanda è piuttosto “quale riformismo”? In quale senso e direzione ci si propone – letteralmente – di “dare forma nuova ai rapporti sociali”? E a monte: che lettura si dà dello stato di quei rapporti e, di riflesso, quali le priorità, di valore e di programma, al fine di correggerli innovando, cioè di orientare il cambiamento? Nel solco di Bobbio, la stella polare dovrebbe essere l’uguaglianza, in concreto la lotta contro le disuguaglianze, e la democrazia sostanziale. Vasto programma. A riprova della genericità della nozione di riformisti sta la circostanza che coloro che si intestano quel titolo già si sono divisi accusandosi reciprocamente di “riformismo di palazzo” opposto al “riformismo di popolo”. In sintesi: se non si qualifica e si svolge quella cifra in una lettura della dinamica storico-civile e in indicazioni prospettiche, l’etichetta riformista rischia una deriva compromissoria se non subalterna al fronte avverso.
Leaderismo e forma-partito
Secondo quesito: se intendo bene, le minoranze PD lamentano una deriva leaderista del PD. Non è rilievo peregrino. Solo si dovrebbe portare la riflessione più a fondo. A quella deriva non è estranea la forma-partito e, segnatamente, il suo statuto che contempla primarie aperte ai non iscritti per la elezione del leader. Merita notare che chi più si adoperò per quella soluzione fu proprio la componente liberal, oggi in minoranza, che si ispirava a un modello di democrazia maggioritaria e di investitura, legata al primo segretario Veltroni, cui si deve lo statuto che appunto disegna un partito centrato sul leader e che, in forza di un automatismo, ne fa il candidato premier proposto dal partito. Ben venga un ripensamento, ma appunto a fondo e sistemico, sulla forma-partito e sul rapporto tra leadership e premiership.
Il non senso di una “corrente cattolica”
Terzo: si dovrebbe sciogliere l’equivoco regressivo della “corrente cattolica” del PD. Cattolicesimo è categoria religiosa e non politica. Una ben intesa laicità è pietra angolare del cattolicesimo democratico. Esso dovrebbe essere immune dal clericalismo (anche di sinistra) e non dovrebbe essere confuso con il moderatismo. Tantopiù considerando il magistero sociale pontificio recente, da Francesco a Leone, il cui stile diverso non intacca la continuità nella sostanza. La convergenza di cattolici democratici e “destra” liberale del PD è francamente innaturale: basti pensare a politica estera (pace e guerra), politica economico-sociale, modello istituzionale e riforme costituzionali, nonché la stessa forma-partito. Un solo esempio: si può – e forse si deve – essere per la difesa comune europea, ma è meno agevole proclamarsi pacifisti di ispirazione cristiana e avallare senza qualche distinguo la riconversione dell’economia europea come economia di guerra proposta dalla von der Leyen al carro di Trump.
La Terza via blairiana è inattuale
Quarto: dubito che tornare al renzismo o meglio al blairismo sia la ricetta giusta per il nostro tempo. Essi si situavano dentro le coordinate del mito della globalizzazione. Oggi spira tutt’altro vento. Sono semmai conclamati i costi della globalizzazione e i limiti del paradigma neoliberista che aveva fatto breccia anche nelle sinistre europee. Un paradigma non solo messo in crisi dalle coordinate esterne, come sostengono, minimizzando, i suoi ostinati apologeti, ma nelle sue stesse basi teoriche (il monetarismo economico). Un tempo, allora, nel quale prese corpo il TINA (“there is no alternative” della signora Thatcher), acronimo secondo il quale “non si danno alternative” al modello unico dominante. Quello fu lo sfondo e l’asse portante del discorso veltroniano del Lingotto, con l’enfasi sull’innovazione nel mentre già montava una domanda di protezione, identitaria e sociale. E’ il 2007 e già l’anno successivo negli Usa esplode la crisi finanziaria dei subprime che subito si diffonde in Europa. Solo in quel quadro storico e ideologico si può spiegare, a valle, la subalternità del PD ai governi d’impronta tecnocratica. Di essi il PD fu anzi il più organico supporto politico-parlamentare. Dopo quella esperienza, che ha concorso a configurarlo come partito governista per eccellenza, disponibile e anzi solerte nell’ andare al potere senza vincere le elezioni, il PD ha giurato “mai più”. Si vuole revocare quell’impegno?
La politica della coalizione
Quinto: fare alleanze, adoperarsi per l’unità del campo alternativo alla destra, ancorché non sufficiente, è tuttavia necessario. Non a caso quasi nessuno nel PD osa sostenere il contrario. Con gli attuali rapporti numerici, nessuno si azzarderebbe più a teorizzare l’autosufficienza del PD quale “partito della nazione”. Che fu l’approdo paradossale e persino contraddittorio del renzismo quale estremo sviluppo dei cultori del bipolarismo spinto sino al bipartitismo. Il partito mira all’interesse generale, ma è pur sempre parte, che seleziona e dispone in gerarchia gli interessi e i valori cui dare priorità.
Non farsi usare da destra ed establishment
Infine – sesto quesito – un test da tenere d’occhio. Converrà che certi settori della minoranza PD si mostrino accorti, che non si facciano usare da destra o dall’establishment. I media mainstream e quelli governativi tifano spesso per loro, danno loro grande visibilità. La cosa evidentemente non è innocente. Le testate (tipo Il Foglio) più perspicaci e smaliziate e, con ben superiore efficacia, il Corriere della sera, come da tradizione sempre più filogovernativo, addirittura si applicano a suggerire al PD e alla sinistra in genere le posizioni da adottare. Fanno, va detto, ciò che, reciprocamente, fanno altri a sinistra: disegnano e lusingano l’avversario a loro più gradito. Nel caso nostro, esagero per farmi intendere, coccolano la sinistra che farebbe comodo alla destra. Una sinistra che faccia politiche di destra. Sul punto valgono due obiezioni: una pratica, l’altra di principio. Quella pratica: tra l’originale autentico e l’imitazione contraffatta l’elettore sceglie la prima. Quella di principio: a cosa si riduce la politica quando ci si mostra agnostici circa i suoi fini nel patrocinare la propria idea di società giusta se non a mera contesa per il potere? Anche qui un esempio: a Milano si è data parola dalla tribuna alla neo segretaria Cisl che ha preso il posto di Sbarra reclutato nel governo Meloni. Ha senso provare a incoraggiare la esile dialettica interna all’ex sindacato bianco, meno privilegiare il rapporto con un vertice sempre più schierato a destra e che, esattamente nelle stesse ore, licenziava un dirigente, Francesco Lauria, che si era permesso di criticare il governo. Nonostante fossero intervenuti invano a sua difesa Prodi, Treu, Pezzotta, G. Benvenuto.
E’ solo una griglia di domande suggerite dal proposito di porre le basi per illimpidire un confronto tra posizioni genuinamente politiche nel PD e a sinistra. Ecco, a mio avviso, la priorità sta in questo verbo forse un po’ ricercato ma che spero eloquente: “illimpidire” il dibattito.

