L’evasione fiscale è un tema che ha degli aspetti paradossali. Da un lato, tutti o quasi pensano di conoscerla, perché l’hanno incontrata e ne discutono, spesso proponendo ricette più o meno fondate; dall’altro, l’opinione pubblica è invasa da numeri, opinioni e studi che sono difficili da interpretare e collocare. Il risultato è che si genera molto rumore mediatico, ma il dibattito pubblico non fa dei reali passi avanti.
Per fare un esempio recente, dall’analisi sulle entrate dello Stato realizzata dalla Corte dei Conti nei volumi che accompagnano la relazione sul Rendiconto Generale dello Stato emerge che solo il 17,7% degli importi dell’evasione scoperta si traduce in incassi effettivi da parte del fisco, ovvero che nel 2024 sono stati accertati 72,3 miliardi di evasione e che, di questi, 12,8 sono stati versati dagli evasori. Questo significa che la lotta all’evasione in Italia è un “fiasco”, come riportato da alcuni organi di informazione? Più in generale, l’elevata evasione in Italia a cosa è dovuta e, quindi, come si potrebbe ridurla? Queste sono le tipiche domande che si rivolge il cittadino e a cui spesso, anche data la difficoltà tecnica della materia, sono suggerite risposte semplicistiche.
Partire da un’analisi delle cause reali
Sovente si afferma che l’evasione in Italia è dovuta esclusivamente ad una causa specifica, ad esempio alla pressione fiscale troppo elevata o alle sanzioni troppo lievi o ancora all’inefficienza della spesa pubblica. E da qui nascono “ricette” secondo cui l’evasione potrebbe sparire se le imposte fossero ridotte, se i contribuenti “fossero sbattuti in galera come negli Stati Uniti” e via di questo passo.
La realtà suggerita dall’analisi economica, che si occupa di questi temi ormai da decenni, è ben più articolata e complessa. Occorre un approccio razionale, che parta dall’analisi delle cause e delle conseguenze dell’evasione per suggerire delle possibili strategie di contrasto e, alla luce dei risultati ottenuti, sia in grado di scegliere quelle che possono veramente funzionare per lo specifico paese (nel nostro caso, l’Italia).
Innanzitutto, per quanto banale possa sembrare, è importante ribadire che l’evasione fiscale è un fenomeno sociale connaturato all’esistenza stessa del prelievo fiscale (e basta ricordare L’Orazione contro Androzione per rendersene conto) e che, in qualche misura, esiste in tutti i paesi del mondo. Come ogni fenomeno sociale è dovuto ad una pluralità di cause. Alcune hanno natura puramente economica: si evade di più se si ha una bassa probabilità percepita di poter essere controllati o comunque di pagare una sanzione e se cresce il livello dell’aliquota. Altre sono di natura prettamente psicologica, e quindi evadono di meno gli individui che hanno una maggiore avversione al rischio o comunque che sovrastimano le conseguenze di un controllo fiscale. Ancora, sono importanti elementi di natura sociologica, come il senso civico, la percezione dell’utilità dei beni e dei servizi pubblici finanziati dal gettito fiscale. Dato che l’evasione è un fenomeno sociale e multidimensionale, l’analisi delle sue cause va calata necessariamente nel contesto specifico del paese e del momento storico in cui viene effettuata.
La particolarità italiana
Nel caso italiano, ad esempio, emerge la presenza di una quota anormalmente alta di contribuenti che hanno la possibilità di evadere. E’ noto che, in pressoché tutti i sistemi fiscali, i lavoratori dipendenti possono evadere solo se si mettono d’accordo con il datore di lavoro, il quale, normalmente, preleva alla fonte e versa allo Stato le imposte dovute. Viceversa, i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali in buona parte autodichiarano i propri redditi e le proprie imposte. La differenza tra l’Italia e gli altri grandi paesi europei è principalmente, anche se non esclusivamente, spiegabile con la diversa struttura delle economie, e con la quota di contribuenti che autodichiarano il proprio reddito. Secondo i dati resi disponibili dal network Isora la quota di contribuenti che autodichiarano il proprio reddito – e rispetto ai quali la possibilità di riscontrare queste dichiarazioni con i dati forniti dai sostituti di imposta o da terze parti è limitata (lavoratori autonomi, imprenditori individuali e società di capitali) – sul totale dei contribuenti è pari al 22,4% in Italia, al 13,7% in Francia e al 12,6% in Germania. Come detto, questa quota è assimilabile alla parte di contribuenti con maggiori possibilità di evadere e più difficili da controllare, il che può contribuire a spiegare i diversi tassi di evasione osservati nei diversi paesi.
All’alta evasione italiana contribuiscono poi ulteriori fattori. Sebbene il numero dei controlli effettuati sia in linea con quello che si osserva negli altri grandi paesi a fiscalità di massa, l’Italia si distingue per un numero di condoni elevatissimo. Dal 1973, anno dell’entrata in vigore dell’Irpef, ad oggi sono stati varati più di 30 condoni, variamente denominati, a volte “tombali” e quindi tali da cancellare anche l’imposta teoricamente dovuta, a volte limitati alle sanzioni e agli interessi (come nel caso delle recenti rottamazioni). Inoltre, l’Italia ha un sistema di riscossione delle imposte estremamente inefficiente, tra i peggiori al mondo, ed è questa la principale ragione dei dati negativi riportati dalla Corte dei Conti.
Certo, anche l’elevata pressione fiscale gioca presumibilmente il suo ruolo, come dimostrato da diverse ricerche empiriche. Ma non si può certo pensare che i livelli di pressione fiscale in Italia siano così elevati rispetto agli altri paesi da spiegare i nostri maggiori livelli di evasione. Di conseguenza, non è corretto affermare, come pure alcuni personaggi pubblici hanno fatto in passato e alcuni politici ripetono oggi, che abbassando la pressione fiscale si risolve il problema dell’evasione, a meno che non si voglia semplicemente dire che se le tasse non ci fossero non ci sarebbe neppure l’evasione.
Riforme dell’amministrazione e coordinamento internazionale
E allora, che fare? Prima di tutto, bisogna analizzare i casi di successo nelle attività di contrasto dell’evasione in Italia e altrove. Ad esempio, le relazioni ufficiali sull’evasione hanno documentato l’impatto dell’introduzione di nuovi meccanismi di versamento dell’Iva (il cosiddetto split payment), della fatturazione elettronica, della sostituzione degli studi di settore con gli Isa. Queste riforme hanno consentito di ridurre di almeno 1/3 l’evasione dell’Iva che, in termini assoluti, è stimata in calo da quasi 40 miliardi nel 2010 a meno di 20 nel 2021. Tuttavia, è rimasto praticamente insoluto il problema dell’evasione dell’Irpef da parte dei lavoratori autonomi e degli imprenditori individuali che, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’economia e delle finanze, raggiunge i 2/3 del totale e un valore assoluto vicino ai 30 miliardi.
È sulle riforme dell’amministrazione finanziaria che dobbiamo concentrare l’attenzione. Bisogna entrare nel merito dei poteri e delle responsabilità delle amministrazioni finanziarie, perché evidentemente quelli fino ad oggi definiti non sono stati sufficienti per ridurre l’evasione dell’Irpef di lavoratori autonomi e imprenditori individuali. Non basta parlare genericamente di potenziamento dell’uso delle banche dati (che è ormai diventato uno slogan consunto, un po’ come la stessa “lotta senza quartiere all’evasione fiscale”), ma invece di una riforma complessiva dell’amministrazione fiscale incentrata su quattro principi: rafforzamento dei poteri, aumento delle responsabilità e della trasparenza nell’esercizio dei poteri stessi, riorganizzazione funzionale e dotazione di un livello adeguato delle risorse umane, materiali e finanziarie.
Non va poi dimenticato il fronte internazionale. Secondo i dati disponibili, nel 2022 i profitti realizzati dalle multinazionali in Italia ma spostati in altri paesi sono ammontati a circa 26,2 miliardi di euro, e, conseguentemente, il gettito perso è stato di circa 6,3 miliardi di euro, corrispondenti a meno dell’8% del tax gap complessivo stimato nella Relazione evasione e a circa il 18% del gettito Ires. E’ evidente che le vere soluzioni a questo problema non possono essere trovate a livello nazionale: solo attraverso il coordinamento delle legislazioni e dell’azione delle amministrazioni fiscali è possibile limitare il fenomeno, come in effetti è avvenuto in parte negli ultimi 15 anni. Tuttavia oggi alcune importanti iniziative, come la proposta dei due pilastri proposta dall’Ocse, appaiono immobilizzate dai contrasti internazionali, e in particolare dalla posizione statunitense. Occorre, quindi, una nuova strategia a livello europeo.
Questi ed altri temi sono approfonditi nel mio volume L’Evasione fiscale, edizioni Vita e Pensiero che contiene anche un’analisi dell’evasione italiana in prospettiva storica.