Proponiamo qui l’intervista di Ernesto Preziosi a Franco Monaco postata sul sito di Argomenti 2000 (www.argomenti2000.it). In essa si ragiona retrospettivamente sul percorso dall’Ulivo al PD, da Prodi a Veltroni, da Renzi a Schlein. Sino a qualche riferimento all’attualità. Per sua natura trattasi di materia oggetto di discussione che offriamo al confronto.
1) Perché nacque l’Ulivo e cosa si proponeva?
La causa prossima e contingente è l’appello di Prodi e altri (tra loro l’imprenditore Giancarlo Lombardi e il sindacalista Sergio D’Antoni) a organizzare l’alternativa al governo Berlusconi che, nel 1994, padroneggiando meglio la nuova legge elettorale maggioritaria, aveva messo insieme uno schieramento largo grazie all’escamotage furbastro di due diverse alleanze: il Polo delle libertà al nord tra la neonata Forza Italia e la Lega e il Polo del buon governo al sud tra Forza Italia e Alleanza nazionale di Fini. E aveva così battuto il fronte dei progressisti capeggiato da Achille Occhetto. Ma, ben oltre la ragione contingente, l’ambizione era assai più alta. Molto schematizzando triplice: operare una sintesi nuova e originale tra le culture democratiche e riformiste che avevano forgiato la democrazia italiana; propiziare una democrazia competitiva e dell’alternanza tra schieramenti alternativi per porre fine alla anomalia italiana della “democrazia bloccata”; un progetto europeo che potremmo fissare in uno slogan: “portare l’Italia in Europa e portare l’Europa in Italia”.
2) Si trattava di un progetto culturale prima che politico. In che senso?
Sì. Come accennato si scommetteva sulla possibilità e sulla fecondità di un incontro tra le tre grandi culture riformiste (cattolica, liberale, socialista) che, in passato, erano state divise e spesso in contrasto tra loro, ma che avevano cooperato nel dare vita alla Costituzione. Da integrare con la più recente sensibilità ambientalista. Un incontro – c’era una elaborazione al riguardo, non fu un’improvvisazione – che doveva venire a capo di due questioni irrisolte della nostra storia civile, culturale e politica: la questione comunista e la questione cattolica. Tradotto: il mito paralizzante della unità delle sinistre e il dogma dell’unità politica dei cattolici su base confessionale. Finalmente la polarità doveva realizzarsi fisiologicamente e laicamente tra destra e sinistra; conservatori con i conservatori, progressisti con i progressisti, laici o cattolici che essi siano. Fine dei pasticci e del pendolarismo trasformista alla Buttiglione. Decisiva, al riguardo, a monte dell’Ulivo, fu la rottura del Partito Popolare di Martinazzoli.
3) L’esperienza ulivista copre gli anni 1995-2007, che tipo di evoluzione al suo interno?
È stato un percorso difficile e travagliato e non poteva che essere così. Si doveva venire a capo di una lunga e controversa storia, intessuta di incomprensioni e di conflitti. Mi limito a rammentare una disputa che segnò la legislatura 1996-2001 con i suoi quattro (sic) governi: Prodi, D’Alema 1, D’Alema 2, Amato, ma che si sviluppò anche negli anni a seguire. La disputa tra chi si adoperava per accelerare il passo verso una autonoma soggettività politica dell’Ulivo (i prodiani e gli ulivisti di vario rito) e chi resisteva in nome del primato dei partiti originari. Facciamo pure due nomi: D’Alema e Marini. Forse – ma non si può esserne sicuri ex post – mancammo il momento magico nel 1998 con la traumatica caduta del primo governo Prodi. Lì forse si poteva andare a elezioni con un Ulivo ancora in buona salute e attrattivo. Il processo politico sarebbe stato più celere. Poi, complici i cambiamenti portati alla legge elettorale, hanno ripreso le spinte particolaristiche.
4) Nell’ottobre 2007 nasce il Partito Democratico. È erede dell’Ulivo? In cosa si differenziava? E soprattutto perché non riesce a costruire una nuova proposta politica che fosse una sintesi delle culture politiche di provenienza e insieme risposta ai problemi presenti nell’agenda politica del Paese?
Anche qui sono costretto a semplificare. Due i limiti dell’atto di nascita del Pd, al punto che, per paradosso, si può considerare il Pd – non come idea ma per il modo e il tempo in cui è nato – una regressione rispetto alla innovazione (e alla connessa forza attrattiva) dell’Ulivo. Primo: trascorso il momento magico, si impresse una inopinata accelerazione verso il “partito unico” nel quadro di un forzoso bipartitismo. Veltroni, in questo, al modo di Berlusconi sul versante opposto, concepì un PD privo di alleati (lo schema coalizionale era invece proprio dell’Ulivo, nella consapevolezza del ricco pluralismo delle tradizioni politico-culturali non suscettibili di una reductio ad unum), il “partito della nazione” con una impronta centrista e governista. Secondo limite: al Lingotto, insediandosi come segretario, Veltroni disegnò un Pd liberal-democratico quando già (la crisi finanziaria del 2008 partita dagli Usa era già nell’aria) il mito fallace della globalizzazione a tinte rosa stava tramontando e si manifestavano i costi di essa per il popolo dei perdenti e dei dimenticati (i cosiddetti forgotten). Renzi semplicemente esasperò lo schema veltroniano, sia nel profilo ideologico liberal-centrista del Pd, sia nella pretesa/presunzione della sua autosufficienza, sia nella concezione leaderista e personale del partito, che in realtà era scolpita nello statuto di esso. Si vedano due norme-cardine eloquenti del modello leaderista: le primarie per l’elezione del segretario nazionale (non solo per le cariche istituzionali monocratiche) e la coincidenza tra leader Pd e candidato premier.
5) Veniamo al presente: il PD a guida Schlein che cos ‘è? Cosa lo differenzia dal progetto ulivista?
Differenze ci sono, naturalmente. Anche se, su un punto, si potrebbe sostenere il contrario della opinione corrente. Schlein è una “nativa” dell’Ulivo-Pd, fa segnare il superamento dei paradigmi dei due principali “partiti genitori”, Ds e Dc/Ppi. In questo è più ulivista. E’ espressione di una sinistra movimentista post-ideologica. A dispetto di una certa narrativa caricaturale, niente a che vedere con il paradigma comunista. Così pure è ulivista la sua “testarda” tensione unitaria, che taluni, anche dentro il Pd, le contestano, senza prospettare altre vie orientate a un’alternativa che abbia qualche chance di competere se non di vincere. Certo essa ha riposizionato il Pd a sinistra. Ma era la sola via possibile per resuscitare un partito sull’orlo dell’estinzione. In un quadro politico – dobbiamo prenderne atto, piaccia o no – che si è già “riproporzionalizzato”. In tale quadro non è da escludere e forse è ragionevole prospettare l’idea di una formazione moderata di centro liberal-democratica (non cattolica, che c’entra? il cattolicesimo è categoria religiosa non politica), che tuttavia si situi senza ambiguità nell’alveo progressista o del centrosinistra che dir si voglia. Lo ha inteso Renzi, non Calenda che ostinatamente persegue la suggestione di un terzismo “ideologico” (ipostatizzato) politicamente sterile. Una scommessa già ingaggiata senza successo decine di volte da svariati protagonisti dal 1994 in poi.
6) Davvero il Pd è poco interessato al contributo dei cattolici? O forse nella mancanza di progettualità …. si può ignorare il contributo di culture politiche?
Spero di non ferire la sensibilità di tanti amici che si adoperano a tal fine in perfetta buona fede. Ma, essendomi occupato a lungo della questione, confesso una personale diffidenza sull’enfasi assegnata ad essa. Da ultimo dei discepoli di Giuseppe Lazzati immaginarsi se non considero feconda l’ispirazione cristiana nel pensiero e nell’azione politica. Così pure, mi riconosco nella tradizione e nella cultura cattolico-democratica, salvo intenderci sul suo vero, specifico significato (una parte e non il tutto delle espressioni politiche del cattolicesimo: anche la Meloni è cattolica!). E tuttavia sulla questione pesano troppe ambiguità del passato e qualche strumentalità nel presente. Provoco: forse ha ragione Ruini nell’adottare un approccio… laico. I cristiani si impegnino con soggettiva coerenza e umiltà laddove politicamente si riconoscono, senza pretese di primazia e tanto più di esclusiva nella rappresentanza dei cattolici. Provoco di nuovo: a chi versa lacrime per un presunto deficit di rappresentanza dei cattolici nella politica e nelle istituzioni sono tentato di replicare che, al contrario, essi sono più rappresentati lì (dal Quirinale a palazzo Chigi) che non nella società e nelle professioni. Si può rifletterci? Dentro la comunità cristiana, da decenni, ci si mostra consapevoli di essere minoranza sociale, “piccolo resto”, come pretendere, fuori di essa, di pesare oltre misura?
7) Infine da più parti, nella situazione presente del centro sinistra e del PD in particolare, si chiede di mettere in campo un raccordo che, o dentro il partito come corrente (pare essere il tentativo di Castagnetti-Del Rio) o al di fuori, con la discesa in campo di Ruffini ecc… ti sembra possibile e utile?
Tutto ciò che va nella direzione di animare culturalmente e socialmente il campo progressista va apprezzato e incoraggiato. Solo, come accennato, suggerirei due avvertenze: 1) in sede politica, è doveroso, chiedo scusa del bisticcio, qualificarsi politicamente, non declinare la propria identità in quanto cattolici (è la lezione di Maritain, di Lazzati, del Concilio), nessuno ne ha titolo, neppure i pastori; 2) non si confonda l’ispirazione cristiana, suscettibile di generare una pluralità di opzioni e militanze politiche diverse, con il moderatismo. Vero è che un certo moderatismo ha contrassegnato parte della tradizione Dc (non tutta). Ma era un tempo nel quale l’alternativa, giustamente giudicata non rassicurante, stava a sinistra. Ho l’impressione che oggi la situazione sia sensibilmente cambiata, che oggi una pregnante ispirazione cristiana presa sul serio mal si concili con il moderatismo. Semmai il contrario. Vedi il magistero pontificio. Mi sono preso qualche mala parola mesi fa quando, in occasione dei due contestuali convegni di Milano e di Orvieto (rispettivamente dei “cattolici” di Comunità democratica e dei liberali Pd di Libertà Eguale), accomunati dai media ma anche da alcuni dei promotori, persino con relazioni comuni, mi ero permesso di osservare che, sotto il profilo delle culture politiche, essi, sulle principali issues tematiche (politiche sociali e del lavoro, modello istituzionale e dunque riforme costituzionali, pace-guerra), a ben vedere, sarebbero su posizioni assai distanti. Sono utili le correnti, ma appunto se qualificate su base politica, pena trasmettere l’idea che sia solo una contesa sugli organigrammi.
8) La tua opinione sulla iniziativa di Ernesto Ruffini e della rete degli amministratori sortita dalla Settimana sociale di Trieste?
Dei Comitati di Ruffini non so nulla. Ho stima della persona. Ho letto e molto apprezzato i suoi due libri: Uguali per Costituzione e Più uno, che dà nome ai Comitati da lui patrocinati. A suo favore vanno registrate la competenza in campo fiscale (tema cruciale di ogni visione politica e tanto più a fronte della scandalosa politica fiscale della destra di governo che degli evasori fa una delle sue constituency) e il suo senso dello Stato, testimoniato da direttore dell’Agenzia delle entrate e avvalorato dalle sue dimissioni tutte politiche. La rete degli amministratori cristiani mi pare si iscriva sul versante prepolitico, non politico in senso stretto, doverosamente di parte. Penso sia utile più a coltivare la coscienza politica, spesso esile, della comunità cristiana che non alla politica in senso proprio. C’è poi una questione che qui posso solo enunciare in quanto assai complessa e problematica, quella del cosiddetto civismo intrecciato al localismo, alle liste civiche territoriali. C’è un civismo buono e uno meno buono. Va valutato in concreto. La dico così: un civismo politicamente maturo e qualificato anche se fuori dei partiti, e uno riconducibile a cacicchi e potentati locali che si mettono sul mercato politico-elettorale offrendosi al miglior offerente. Il civismo, cioè, esigerebbe un approfondimento di fondo, fuori dalla retorica della partecipazione e/o dalla pregiudiziale condanna.