Da anni in Italia si sta riflettendo sulla necessità di una legge che regoli, così si legge sui media, il fine vita. La Corte Costituzionale è intervenuta (in particolare con la sentenza del 22 novembre 2019, n. 242), a partire da richieste di singoli giudici su specifici casi, delineando le condizioni per cui il medico, ove prescrivesse un farmaco letale, non venga punito.

Le basi della legge esistente

È necessario ricordare che comunque con la legge 219/2017 molti aspetti riguardanti il fine vita sono stati già normati. Il paziente può rifiutare qualsiasi trattamento sia diagnostico che terapeutico, compresi quelli salvavita (si fa esplicitamente riferimento alla idratazione e nutrizione artificiale). Può altresì chiedere che un trattamento una volta iniziato, venga sospeso.

Si dice anche che il medico, ove il paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. Ha cioè il medico il dovere (non la mera possibilità) di sospendere, in queste specifiche condizioni, i trattamenti in essere.

Viene anche rimarcata la necessità di assicurare una adeguata cura della sofferenza, fino alla sedazione palliativa profonda continua. Quindi per sé una norma – una buona legge – sul fine vita esiste.

Questa legge non ammette né l’eutanasia né il suicidio assistito. Per eutanasia si intende la richiesta di un paziente ad una terza persona di essere aiutato a morire poiché ritiene che la sua vita, a causa delle sofferenze legate ad una malattia, non sia più degna di essere vissuta. Cosa differenzia questa fattispecie dalla possibilità di chiedere che ogni trattamento sia sospeso? Non si tratta in ogni caso di abbreviare la vita?

La differenza, eticamente rilevante, è la seguente: mentre quando si sospende un trattamento anche di sostegno vitale (la PEG che assicura l’idratazione e la nutrizione) si permette al paziente di morire, si creano le condizioni della sua morte, con l’eutanasia si causa la morte del paziente. Quando si sospende un trattamento si inizia la sedazione profonda, così che il paziente non soffra, attendendo che il cuore cessi di battere. La causa della morte è la patologia di cui è affetto il paziente, non la sospensione dei trattamenti. Il tempo che intercorre tra sospensione e morte può essere diverso: da pochi minuti ad ore, eccezionalmente giorni. La questione che attiene alla richiesta eutanasica riguarda esattamente questo tempo: perché aspettare?

Questioni di fondo

Il disegno di legge che in questi giorni si sta discutendo intende dare una risposta a questa domanda, a partire da quanto già definito dalla Corte costituzionale con la sentenza sopra richiamata che, ricordiamolo, permette, a determinate condizioni, al medico di non essere punito nel caso prescriva, su richiesta del paziente, un farmaco letale. Il presente contributo intende fare una rilettura critica di questa proposta, cercando soprattutto di evidenziare e mostrare quale sia la posta in gioco sui diversi aspetti e sui diversi piani che sono da essa richiamati.

Analizziamo dapprima questioni di profilo generale. La prima: esiste una differenza moralmente rilevante tra eutanasia e suicidio assistito? Nel primo caso il medico interviene somministrando direttamente al paziente un farmaco letale. Quindi in questa fattispecie l’ultima parola spetta al medico, anche se dopo esplicita e consapevole richiesta del paziente. L’azione del medico è necessaria e sufficiente a causare la morte del paziente.

Nel caso del suicidio medicalmente assistito il medico prescrive il farmaco letale che poi il paziente assume. L’azione del medico è necessaria ma non sufficiente a causare la morte del paziente. Il medico non crea le condizioni, poiché intenzionalmente prescrive un farmaco che se assunto può causare la morte. Ma l’ultima parola è del paziente, che potrebbe anche non utilizzare il farmaco. Negli Stati Uniti ci sono persone che, rassicurate dal fatto di poter gestire la propria morte, non assumono il farmaco pur avendolo a disposizione, morendo per la propria malattia.

La seconda questione: esiste un diritto a morire?  Certamente esiste un diritto alla vita, ovvero un diritto ad essere curato e a veder tutelata la vita e la salute come bene fondamentale. Non esiste parimenti un dovere di vivere a tutti i costi. Vi è certamente un diritto a morire in modo degno dell’umano che è in ciascuno di noi, nel rispetto di ciò che ogni persona ritiene per sé essenziale. Non vi è un diritto ad essere ucciso e quindi un dovere da parte di terzi di realizzare questa richiesta

Un terzo punto: la vita è un bene indisponibile? Se assumiamo che la vita sia un dono di Dio, è perlomeno dubbio che poi Dio chieda la restituzione del dono. Dio attende – non pretende – una riconsegna del dono che ne testimoni la gratitudine per ciò che si è ricevuto, nel senso di disporne nella stessa misura con cui l’ha vissuto Gesù. Per questo si può anche dare la vita – disporne – nel nome della fede, mostrando che l’assoluto è Dio. La vita è un bene incondizionato, nel senso che nessuna condizione può essere posta a monte e dall’esterno per definirla degna di essere vissuta. Infatti, la dignità di ogni persona viene riconosciuta e non creata: basti qui il riferimento alle dichiarazioni internazionali sui diritti inviolabili della persona.

Il nuovo progetto di legge della maggioranza

Tenuto conto di ciò, esaminiamo nei suoi aspetti più rilevanti il contenuto del disegno di legge.

1. L’articolo 1 nel sottotitolo riporta “inviolabilità e indisponibilità del diritto alla vita”. L’utilizzo di questi termini all’inizio del disegno delinea i principi di riferimento su cui si dipana la proposta. Vista la necessità di precisazioni e l’ambiguità del termine “disponibilità” è giunto il momento di superare, abbandonandola, questa terminologia.

2. L’articolo 4 al comma 1 istituisce il Comitato Nazionale di Valutazione quale organo competente a rilasciare, su richiesta dell’interessato, parere obbligatorio circa la sussistenza o meno dei requisiti per l’esclusione della punibilità. Comitato costituito da sette componenti, di cui un giurista, un bioeticista, un medico specialista in anestesia e rianimazione, un medico specialista in medicina palliativa, un medico specialista in psichiatra, uno psicologo e un infermiere.

Oltre la giustificata critica dell’impossibilità pratica di un organo nazionale di poter avere una relazione con il paziente che consenta di comprendere e valutare la sua decisione, non si capisce perché ci debbano essere in un comitato tecnico un bioeticista, uno psicologo, un giurista. Si confonde un piano procedurale con un piano sostanziale. Il tema sotteso, di straordinaria importanza, è la questione della prevenzione delle richieste di suicidio assistito. La parola prevenzione è soggetta spesso a interpretazioni fuorvianti: non comporta la volontà di decidere al posto di qualcuno, di far cambiare idea con modalità ambigue, ma di permettere a ciascuno di prendere decisioni che siano le sue. La questione non è solo chi decide (procedura) ma il percorso e le condizioni che consentono a ciascuno di decidere di se stesso. Detto in temini antropologici: la libertà si può esprimere dentro una relazione, non a monte di essa. La libertà è parola ultima (da rispettare), non parola unica.

Per cui è importante che un paziente possa confrontarsi con un bioeticista in ordine al senso della sua decisione, con un palliativista per comprendere le diverse possibilità per alleviare le sofferenze; ma tutto ciò prima che prenda la decisione e richieda l’inizio dell’iter verso il suicidio assistito. Una volta che questo è avvenuto, sarà una commissione tecnica, medico-legale che verificherà unicamente (e velocemente) la sussistenza dei requisiti richiesti

Come definire la cura? La questione del SSN

3. Sempre all’articolo 4 si afferma che “il personale in servizio, le strumentazioni e i famaci, di cui dispone a qualsiasi titolo il Sistema Sanitario Nazionale non possono essere impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita considerata dalla sentenza della Corte costituzionale del 22 novembre 2019, n. 242”.

La questione seria sottesa a questa scelta è legata alla nozione di cura. Il suicidio assistito può essere considerato un atto di cura proprio della medicina e di conseguenza essere garantito dal servizio sanitario nazionale? Chi risponde positivamente attesta che cura comporta il farsi carico di un paziente in tutte le sue fasi e in tutte le condizioni, non abbandonandolo proprio quando sono necessarie competenze tecniche (come nel suicidio assistito) per realizzare fini che il paziente stesso ha liberamente scelto. Chi si oppone afferma che la medicina non è solo competenze, ma ha anche una intrinseca finalità – la cura della persona – che garantisce il cittadino sempre e in ogni circostanza da indebite pressioni (anche economiche ma non solo), tutelando in modo particolare i più deboli e bisognosi. Dare la morte sarebbe un vulnus inaccettabile per il ruolo di garante pubblico della cura della salute attribuito alla medicina.

Quale mediazione possibile dentro queste legittime argomentazioni? L’esclusione del servizio nazionale, come scelta ipergarantista, rischia di privatizzare l’iter, trasformandolo in un contratto, con il risultato di escludere chi non se lo può permettere, non consentendo allo stato di controllare e governare un evento comunque grave. La stessa reperibilità dei farmaci necessari al suicidio sarebbe non garantita. Una scelta impraticabile non è eticamente accettabile.

D’altro lato dei segnali vanno dati per attestare l’ambiguità del suicidio assistito. Si potrebbe proibire la procedura sia negli ospedali che nei luoghi di cura che negli hospice. In più, sempre in riferimento al rilievo anche simbolico che il tema della cura possiede, non si dovrebbe ricorrere all’obiezione di coscienza, ma, inversamente, consentire ai medici di dichiarare la propria disponibilità a partecipare alla procedura.

Sarà possibile una mediazione politica alta?

Infine la questione ha anche un rilievo politico.

1. Alcuni attestano che sia meglio non avere una legge. Piuttosto che una brutta legge, meglio continuare – con tutti i limiti – sulla scia di quanto già stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale. Altre posizioni invece ritengono che, approvata una cattiva legge, ci sarà poi la possibilità di adire alla Corte costituzionale per abrogare quanto approvato. Il limite di queste posizioni è quello di dare voce alla posizione estreme, poco inclini al confronto e alla mediazione, nel tentativo da parte di ciascuna di esse di ottenere per sé il miglior risultato.

Altri ancora argomentano che, una volta stabiliti dei paletti specifici di ordine clinico, sia da lasciare al rapporto medico-paziente la decisione condivisa sulla strada più congrua da intraprendere, ammettendo che – all’interno del perimetro stabilito – si possano adottare più modalità, compreso il suicidio assistito. Il limite di questa posizione – che è al tempo stesso il suo pregio – è che non permette di valutare quando la discrezionalità diventi abuso.

2. Il disegno di legge presenta incongruenze, ambiguità, nodi procedurali rilevanti. Ma non ci può permettere ancora una volta, su un tema molto delicato e di rilievo per tutti, di farne una questione di parte, come se fosse solo questione che riguardi una parte. Per cui vi è da chiedersi se a partire dal testo, con tutti i suoi limiti, non si possa trovare – o almeno tentare convintamente – una mediazione che sia all’altezza del tema che si intende normare.

(Foto di National Cancer Institute su Unsplash)

  • Professore associato presso il Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita dell’Università degli Studi dell’Insubria (VA). Dirige il Centro di Ricerca in Etica clinica.