Donald Trump ha ormai un registro proprio, che oscilla tra approcci gangsteristici alla realtà e show business, e lo applica a tutta la sua azione politica. Compresa la vicenda del rapporto con Elon Musk, che ha fatto molto discutere e continuerà a farlo nel prossimo periodo. Come è noto, il rapporto tra i due personaggi è passato da una grande solidarietà politica alla rottura totale. Dopo oscillazioni varie nel passato, infatti, i due si sono incontrati nella campagna elettorale dell’anno scorso (con fior di milioni di dollari di contributi del patron di Tesla per la campagna trumpiana e con un ruolo smaccatamente favorevole del suo social media X, su cui sono fluite le fake news a servizio del palazzinaro newyorchese). Dopo la vittoria, il sodalizio sembrava solidissimo, arrivando alla nomina irrituale dell’imprenditore di origine sudafricana a capo dell’inventato Department for Government Efficiency (Doge), in qualità di “impiegato speciale del governo” (ruolo di per sé regolato da norme che lo definiscono temporaneo), focalizzato sullo specifico obiettivo del taglio delle spese governative. Dopo fuoco e fiamme mediatici consensuali durati pochi mesi, i due sono giunti alla rottura, con la conclusione del lavoro di Musk (dopo aver colpito molti dipendenti pubblici e agenzie significative, ma risparmiato molto meno del promesso), presentata come polemico abbandono. Cui hanno fatto seguito critiche feroci al bilancio presentato dal presidente (Big Beautiful Bill), completate (per ora) con l’annuncio di voler fondare un nuovo partito, l’America Party. Mentre Trump lo bollava come un imprenditore che campa sui sussidi e gli appalti governativi (mica roba banale…).

Primato dell’economia o della politica?

Al netto degli aspetti più contingenti e personalistici dell’egomania narcisistica o di tutti i retroscena possibili (nel mondo complottista circola la voce che sia tutta una farsa per distrarre la sinistra…), ci sono state due letture immediate degli eventi, ambedue piuttosto problematiche. La prima ha visto nella stagione di convergenza tra i due personaggi una saldatura senza riserve tra quel che resta della democrazia verticalizzata e il capitalismo rampante degli imprenditori del digitale, cioè tra potere e ricchezza. A conferma di una sorta di schematica lettura simil-marxista sulla prevalenza definitiva della struttura sulla sovrastruttura. Si sono sprecati i neologismi e le battute sul carattere rivelatore dell’intesa: i video dalla Sala Ovale con i due che concionavano sono quasi sembrati come la foto dei maggiorenti del Big Tech schierati in prima fila all’Inauguration Day di gennaio.  È bastata la rumorosissima rottura per dar fiato ad altri opinionisti, che hanno teorizzato al contrario che alla fine la politica sia tornata ad avere il suo sopravvento sull’economia, leggendo gli eventi come una evidente sconfitta di Musk a fronte del potere del Potus (President of the United States), il politico più potente del mondo. La democrazia funziona ancora, secondo questo panegirico un po’ rassicurante e un po’ enfatico.

Schematizzo un poco, ma colpisce proprio l’alternarsi delle voci su questi registri. Come spesso succede, mi pare che tali due visioni contrapposte lascino ambedue a desiderare. La realtà è più articolata e complessa, e forse molto più inquietante. Proviamo a indicare sinteticamente alcuni punti.

Il primato della politica: ma la destra è divisa

Il primo punto è che certamente le destre contemporanee – e la vicenda statunitense ovviamente è vetrina importante per dire anche di altre situazioni – sono capaci di far convergere posizioni anche diverse tra loro, che politicamente da molti decenni sfruttano le regole della competizione democratica per costruire maggioranze, salvo poi incappare in occasioni di scontro tra loro (in genere quando governano). In questo senso, certamente Trump e Musk incarnano due aspetti diversi della radicalizzazione della destra a stelle e strisce. Il Make America Great Again di Trump è infatti un movimento in cui è decisiva l’istanza della rappresentazione del popolo profondo dell’operosa periferia americana: non tanto i colletti blu della classe operaia, come spesso si dice inesattamente (vari contributi di Mario Del Pero hanno chiarito molto bene questo aspetto), quanto piuttosto un ampio settore del ceto medio impoverito o deluso, prevalentemente bianco, maschile e geograficamente olre che culturalmente marginale, che esprime una forte reazione alla città, alla finanza, alla globalizzazione, alla modernità, al politicamente corretto. Il presidente deve coltivare quindi questi consensi, che chiedono protezione pubblica, interventi pro-sviluppo, sostegni al reddito e anche al credito. Musk è piuttosto rappresentativo di una visione al contrario ultra-modernizzante, favorevole alla deregolamentazione, allo Stato minimo sostituito da una privatizzazione sostanziale e radicale sei servizi, al favore per la finanza e l’internazionalizzazione: una sorta di anarco-capitalismo autonomo dallo Stato. Il che significa che questi due approcci possono anche allearsi – come di fatto è successo – dato che il fronte comune esiste e comporta convergenze anche operative (si pensi all’opposizione ai cosiddetti “sprechi” dell’assistenza per i più poveri, oppure alla lotta contro un presunto Deep State sottratto al consenso popolare). Ma di fronte ad alcune scelte discriminanti, come gli indirizzi da dare alla spesa pubblica, possono anche divergere, come di fatto è successo. Un conto era tagliare agenzie poco popolari come Usaid, un conto molto diverso fare un budget realmente austero e ridurre drasticamente la consistenza dello Stato: cosa che il presidente ha infatti evitato accuratamente di fare, pur blandendo gli happy few con i soliti tagli fiscali e con drastici tagli per l’assistenza ai più poveri, compensati però da faraonici investimenti soprattutto in campo militare e sul controllo dell’immigrazione. Con un risultato (criticato da Musk) di innalzamento del deficit e del debito federale.

Il potenziale partito di Musk e il suo futuro

Di qui la seconda questione: questa divergenza può divenire strutturale, aprendo la strada all’indebolimento del fronte Maga? Musk ha una disponibilità ovviamente molto ampia di risorse finanziarie (al di là degli alti e bassi delle sue imprese), ed ha annunciato appunto la nascita di un nuovo partito. Ha una posizione dominante nei social media, molto più di Trump. Sta quindi certamente nelle sue possibilità costruire un partito, e nelle sue doti mediatiche l’opportunità di cercarvi consensi. Nel meccanismo politico statunitense, peraltro, i tentativi di rompere il consolidato bipolarismo sono stati numerosi, ma complessivamente di scarso successo. O meglio: funzionano talvolta localmente. E hanno funzionato soprattutto in diverse occasioni come esperimenti di rottura, sottraendo voti ai partiti più vicini e quindi favorendo gli avversari (casi di George Wallace, Ross Perot, Ralph Nader). Il che significa che l’iniziativa di Musk per ora assume soprattutto il senso di una minaccia nei confronti dell’ex alleato, in un braccio di ferro politico (che è anche un gioco mediatico) che avrà modo di svilupparsi ancora in molte puntate: l’obiettivo dichiarato è il prossimo turno elettorale, cioè quello delle midterm elections del 2026 che Musk ha già minacciato di far perdere ai repubblicani, che hanno votato il vituperato BBB. In vista naturalmente di quel successivo turno presidenziale in cui il Partito repubblicano sarà – salvo difficili sorprese – orfano di Trump che avrà svolto i suoi due mandati, riaprendo così forse i giochi per la leadership.

Un primato della politica per fare che cosa?

Ma una terza questione si pone. Se Trump al momento sembra avere confermato il proprio controllo politico, si tratta di capire quale orientamento egli intenda dare alla sua posizione di governo. Anche in questo caso al netto di tutte le impuntature, i soggettivismi, la casualità, l’improvvisazione di cui ha dato ampiamente prova. Al di sotto della crosta superficiale, tale primato della politica sembra infatti essere comunque orientato al servizio di ben precisi interessi. Molto più quelli delle grandi corporation e degli altissimi redditi, rispetto a qualsiasi altra componente reale della società statunitense. Si pensi, per fare qualche esempio, ai citati sgravi fiscali, indubbiamente squilibrati a favore degli alti redditi e delle grosse imprese. In questo caso, ci sono nel BBB vantaggi cospicui (salvo il taglio selettivo degli incentivi all’auto elettrica, che colpisce Tesla). Oppure si pensi anche alla più sottile questione della politica economica internazionale: è nota la smodata utilizzazione da parte della seconda amministrazione Trump (ancor più della prima) della minaccia (o della realtà) dei dazi doganali come arma negoziale. Quale sembra essere spesso l’obiettivo delle minacce? Pensiamo al caso dell’Unione europea: sembra proprio che al centro della scena ci siano le complicatissime questioni della regolamentazione delle multinazionali del digitale, prevalentemente statunitensi. Cioè appunto gli interessi di Musk e dei suoi sodali. Non è un caso che la faticosissima mediazione interna dell’Unione europea per raggiungere una regolamentazione di questi oligopoli (il Digital Services Act, il Digital Market Act, l’AI Act) e contemporaneamente un minimo comune di tassazione nei loro confronti, sia proprio emersa più volte come una delle questioni su cui si vorrebbe che l’Unione cedesse, in cambio di una limitazione dei dazi generalizzati previsti (secondo l’ultimo annuncio) al 30%. Del resto, venendo ancora più vicini a Musk, la politica spaziale dell’unica superpotenza esistente, gli Stati Uniti, dipende in maniera molto forte dalla SpaceX di Elon Musk (che nel 2024 ha effettuato 138 dei 145 lanci commerciali, militari o civili negli Usa): se si è lasciato realizzare questa situazione, vuol dire che poi il nodo tra politica e impresa privata non può che essere vincolante, nelle due direzioni. Quindi, in sostanza: quella trumpiana è una politica magari forte, ma che lavora – più o meno selettivamente – per affermare ben precisi interessi, che in modo traslato possono essere rappresentati come interessi del paese, ma che hanno un nome e un cognome specifico: quelli del capitalismo rampante. La rottura personale tra Trump e Musk sembra quindi ridimensionarsi a superficie della storia, se letta in questo orizzonte.

Alla ricerca di una diversa politica

In ultima istanza, questo approccio politico-economico del tutto particolare ed inedito è comprensibile abbia suscitato sconcerto e incertezza, in un primo momento. Preso però atto della sostanza, sembra chiedere una risposta adeguata. Risposta che riguarda la politica interna degli Stati Uniti: la situazione critica dell’opposizione democratica è in questo senso drammatica. Ma non certo solo quella. Anzi. Sul piano globale le cose sono ancora più difficili. Finora sembra che i sostenitori dell’ordine internazionale multilaterale basato sulle regole balbettino nei confronti di questo approccio muscolare e spregiudicato: il che mostra tra l’altro le falle del modello precedente, dato troppo per scontato. Si pensi al veramente rivelatore accordo dell’ultima riunione del G7, con l’esenzione prevista per le multinazionali con sede negli Stati Uniti dalla faticosamente negoziata Global minimum tax del 15%, decisa in sede Ocse. Oppure, si pensi alle fragilità per ora rivelate nella risposta della Commissione von der Leyen all’offensiva di Trump sui dazi contro l’Ue. C’è molto da dubitare sulla funzionalità di tale risposta debole e accondiscendente allo tsunami suscitato dalla nuova amministrazione di Washington. Un approccio più duro nel negoziato, cercando nel frattempo anche sponde fuori dal mondo occidentale, aiuterebbe a ridimensionare la sfida. In effetti, Trump va messo di fronte alle proprie contraddizioni: quanto potrebbe reggere il mercato interno del suo paese se veramente il quadro interno dovesse scontare l’innalzamento generalizzato dei dazi? Anche il consenso elettorale dei consumatori potrebbe venir meno. Musk non teme di rispondere al suo potente (ex?) alleato (anche se la risposta è molto soggettiva e andrà valutata nel medio periodo): perché gli altri interlocutori devono per forza usare toni soft, evitando risposte decise?

(Foto: commons.wikimedia. org)

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore vicario, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.