Salvare la rappresentatività della democrazia italiana, questo è l’imperativo uscito dalle urne dei referendum dell’8-9 giugno. Come da previsioni l’irraggiungibile quorum è stato mancato. Personalmente il risultato mi sembra dica nei numeri assoluti dei partecipanti al voto – oltre quindici milioni – che la guida del governo alle prossime politiche è contendibile. Ma le narrative su chi perso e chi ha vinto del confronto politico congiunturale, che hanno pure le loro ragioni, non mi sembrano il cuore del problema che l’esito di questi referendum propongono.

Una democrazia a base ristretta

E questo problema è quello richiamato in premessa: la precarietà della democrazia italiana per quel che attiene alla sua rappresentatività. E la conseguente sua incapacità di governare un paese che i suoi istituti deputati – camere, consigli regionali e comunali – rappresentano sempre meno, stante la crisi difficilmente reversibile della partecipazione al voto. Alle amministrative non fa più notizia che non si raggiunga il quorum del 50% degli aventi diritti al voto. Valesse la regola del quorum ai referendum che validiamo come espressione della maggioranza dei cittadini che ha “scelto” – e invece è solo la maggiore delle minoranze che è andata al voto – sarebbero elezioni nulle. Su valori analoghi si attesta la diserzione alle urne alle europee. Al massimo si supera (ma per quanto ancora?) il 60% alle politiche. Una disaffezione alle urne ipocritamente lamentata dai politici a urne chiuse, soprattutto da chi ha perso la tornata elettorale, ma che in realtà da tempo non è affatto contrastata con serietà, perché si è rivelata più che funzionale a conservare al suo posto un ceto politico che ne gestisce più facilmente i decrescenti flussi elettorali, mentre finge di dolersene. E poco cale a tutti che urne dovrebbero servire nei loro risultati a cambiare il paese come sarebbe urgente e necessario.

Paese che difatti cambia poco o niente, mentre sul proscenio della politica restano in cartellone attori e attrici i cui teatri stentano al botteghino, quando non sono vuoti. Viste le compagnie di giro in esercizio, più o meno le stesse dall’assestamento del berlusconismo e del post-berlusconismo, c’è poco da attendersi un’offerta politica meno deludente di quella che in questi anni gli italiani li ha sempre più allontanati dal voto. E a questo punto, se davvero li si vuole riportare al voto, forse si può almeno tentare di usare le urne in modo da incentivare la partecipazione, dare agli italiani il senso che andare a votare serva a qualcosa.

Qualche proposta pratica

Nel merito referendario, se si vuole salvare lo strumento del referendum, mantenergli la sua funzione democratica, e non lasciarlo all’uso puramente strumentale al confronto politico cui si è ridotto per tutti, per chi li propone e per chi li avversa, c’è bisogno di correlare il quorum del 50% non agli aventi diritti al voto, ma al numero dei votanti alle politiche della legislatura in cui i referendum vengono proposti agli elettori. Qualcosa di simile c’era nella, per altri versi sciagurata, proposta Renzi. Nel caso dei referendum dell’8 e 9 giugno, questo avrebbe significato che il quorum del 50% andava definito sul 64% per certo del corpo elettorale. Fosse stato così, il risultato prevedibile in voti assoluti li avrebbe resi facilmente passibili di successo; e quindi avrebbe costretto i partiti dell’astensione a impegnarsi per il no nelle urne e a non limitarsi, per “vincerli” millantando, a partire avvantaggiati dal 40% che per definizione ormai non vota. Per altro il quorum su alcune specifiche materie istituzionali potrebbe essere tarato diversamente, ma è inconcepibile che con 12 milioni di voti puoi prendere Palazzo Chigi e con 15 milioni neppure abrogare una norma obbligando il parlamento a legiferare nel merito contestato magari meglio.

Un’altra misura utile a ridare rappresentatività alle urne e a quelli che ne risultano eletti, è il voto di preferenza sia al parlamento che alle amministrazioni. E l’elezione indiretta di presidenti di regione e sindaci delle grandi città. Si ridarebbe peso reale alla rappresentatività di parlamentari e consiglieri, sganciandoli dalla “nomina” nelle liste in capo a segretari di partito e dalla dipendenza dalle sorti del candidato sindaco o governatore. Si eliminerebbe alla radice la questione dei cacicchi e la connessa esigenza perequativa, per il sistema, di legittimarsi con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. L’argomento dell’instabilità degli “esecutivi” nazionali e locali è facilmente liquidabile con norme che impediscano la sfiducia agli esecutivi a meno che non ci sia una maggioranza alternativa.

Aiutare il popolo sovrano a ritrovare espressioni politiche

Non sono queste che propongo tecnicalità elettorali, sono strumenti che incidono sulla finalità del voto: il suo peso e il suo restare in capo al “popolo sovrano”. Popolo sovrano dove una gran quota di quelli che partecipano non per affiliazione, appartenenza o pure e semplice clientela, ma per più o meno convinta “opinione”, ormai da una legislatura all’altra spostano il loro voto nella logica “proviamo anche questi”, per passare – delusi – ad altro tentativo di investimento politico all’elezione successiva. I beneficiati di turno si credono leader, salvo trovarsi senza il loro “seguito” da una tornata elettorale all’altra. Una dinamica che si prova a bollare, quando non favorisce te e i tuoi, come populista da presunti leader che non si sentono più “capiti”. Mentre in verità esprime bisogni di popolo o di gente comune che cercano da tempo erratica espressione politica, ed hanno del tutto ragione a vestire panni “populisti” in assenza totale di “calvinismo” (leggi rigore ed eticità pubblica) delle élites, non solo quelle politiche.  

Questo divorzio tra popolo ed élites è pericolosissimo per la tenuta democratica dei paesi di liturgia liberaldemocratica. Apre la strada ad ogni avventura. Forse con un occhio anche a quello che sta succedendo in America la politica italiana dovrebbe preoccuparsene. Ammainate le dichiarazioni di circostanza post referendum, è ora di darsi da fare, o di tacere per sempre sulla disaffezione al voto e sulla crisi della democrazia.

Crediti foto: Manny Becerra su Unsplash

  • Eugenio Mazzarella

    Emerito di Filosofia Teoretica all’Università Federico II. Tra le sue pubblicazioni: "L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo" (2017), "Il mondo nell’abisso. Heidegger e i Quaderni Neri" (2018), "Perché i poeti. La parola necessaria" (2020), "Colpa e tempo. Un esercizio di matematica esistenziale" (2022), "Europa, Cristianesimo, Geopolitica. Il ruolo geopolitico dello 'spazio' cristiano" (2022).