L’eredità di papa Francesco interpella i cattolici che fanno politica e, in modo particolare, i cosiddetti cattolici democratici. Ma la questione va impostata come si conviene.
Distinguere tra fede e politica
Nella migliore tradizione cattolico-democratica, si ha cura di distinguere tra religione e politica (laicità). Così anche nella vecchia Dc, almeno nei suoi dirigenti più illuminati, da De Gasperi a Moro. Se ne ricavano due corollari: 1) a qualificare le loro posizioni in sede politica devono essere appunto – mi si perdoni la ripetizione – la politica, gli orientamenti politici e programmatici, non già l’appartenenza cattolica; 2) si dà un legittimo pluralismo politico in campo cattolico, per il quale nessuno può intestarsi l’esclusiva del punto di vista cattolico. Neppure le gerarchie ecclesiastiche. Così si legge nella costituzione conciliare Gaudium et Spes: “Se le soluzioni (politiche legittimamente diverse, ndr) proposte da un lato e dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti cattolici collegate al messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa”.
A generare confusione al riguardo in Italia è la circostanza che, per lunghi decenni, abbiamo conosciuto una relativa (mai assoluta) unità politica dei cattolici, ovvero il fatto che la maggioranza degli elettori cattolici si orientasse su un medesimo partito, ovvero la Dc. Tuttavia, con due chiose: 1) si trattava – semplifico – di un partito-contenitore a sua volta grande e plurale; 2) e di una unità ascrivibile a motivazioni storico-concrete (una democrazia bloccata dalla guerra fredda e da un’alternativa problematica) e non a ragioni teologiche (in nome della fede comune).
Venute meno quelle condizioni eccezionali ancorché protrattesi a lungo, ripeto, connesse alla congiuntura, ne dovrebbe discendere che non ha ragion d’essere un “partito cattolico” e neppure correnti di partito che si qualifichino in nome del cattolicesimo. Qualcosa di simile e dunque di anomalo, quantomeno al modo di tentazione, affiora talvolta nel Pd. Ove spesso si parla di “cattolici Pd” quale componente/corrente politica. Quasi un riflesso condizionato.
Corrente cattolica o cattolicesimo democratico?
Merita chiedersi perché. Azzardo: forse perché il cattolicesimo democratico in senso proprio – che è “parte” e non il tutto del più esteso cattolicesimo politico e, segnatamente, quella che, nel quadro politico polarizzato, si situa a sinistra – rappresenta una tradizione politico-culturale e non solo, come potrebbe suggerire la locuzione, un’appartenenza (di natura religiosa) al cattolicesimo genericamente qualificata dalla opzione per la democrazia. Una cultura politica specifica consolidata anche in sede storiografica che, scontando una semplificazione, in termini di posizionamento, potremmo ricondurre alla nota formula degasperiana di un centro che muove verso sinistra. Comunque alternativo alla destra. Ma – ecco un punto dirimente – una cultura politica, quella del cattolicesimo democratico, a sua volta essa stessa plurale. Si pensi alle sue varie espressioni politiche in senso stretto e alle molteplici forme del cattolicesimo sociale; si pensi al cattolicesimo liberale e a quello democratico-sociale più orientato a sinistra. Si pensi, per limitarsi al foro interno al PD, alla circostanza che, anche lì, i cattolici (democratici) si distribuiscono un po’ tra tutte le sue articolazioni, di maggioranza e di minoranza e nelle ulteriori componenti interne ad esse. Ripeto: su base genuinamente politica, come e giusto e naturale che sia. Di nuovo: nessuno può avanzare la pretesa di intestarsi la rappresentanza cattolica in quanto cattolica. Come scordare la lezione di Jaques Maritain per la quale, in politica, ci si sta “da” cattolici ma “in quanto” cittadini”?
Il magistero di Francesco e l’equivoco del moderatismo
A ben vedere, tuttavia, per tutte queste varianti del cattolicesimo democratico – essendo esse accomunate dalla convinzione che l’ispirazione cristiana non sia priva di implicazioni per l’azione politica (ancorché, come accennato, non in senso confessionale) – un riferimento ispirativo comune non può non essere l’insegnamento sociale della Chiesa e il magistero pontificio. Esso, da oltre un secolo, ha conosciuto un ricco e singolare sviluppo. Da ultimo, si consideri il magistero di Francesco. Che, intendiamoci, non detta un programma politico, non inibisce il menzionato, legittimo pluralismo con riguardo al giudizio circa le sue ricadute politiche. Ci mancherebbe. Ma, questo sì, disegna un orizzonte di valori che innegabilmente implica talune conseguenze e opzioni pratico-politiche. Quantomeno ne esclude decisamente alcune in aperto, palese contrasto con quell’orizzonte. Un magistero che – esemplifico – per i suoi impegnativi contenuti e per il contesto politico concreto del nostro tempo, su talune issues oggi politicamente cruciali quali pace-guerra, migrazione, lavoro e diritti sociali, fissa precise discriminanti. Mi pare difficile che esse possano essere iscritte – insisto, oggi, in concreto – dentro la categoria del “moderatismo”. Una cifra ancora spesso e impropriamente associata alle posizioni dei cattolici democratici. Da parte di alcuni superficiali e pigri opinionisti, ma, ahinoi, anche da qualche politico cattolico. Forse come retaggio di una stagione chiaramente alle nostre spalle. Quella nella quale i “cattolici” erano (o si supponeva che fossero) maggioranza sociale e politica e il concetto di moderazione alludeva al proposito di opporsi alle forze impegnate a capeggiare profondi rivolgimenti sociali. Domando: ai nostri giorni non è un po’ il contrario? Non sono forse i cattolici, e tanto più quelli che si autodefiniscono cattolici democratici, alla scuola di Francesco, a doversi proporre l’obiettivo di perseguire un audace cambiamento, in contrasto con lo spirito del tempo che gonfia le vele di conservatorismo e populismo, di darwinismo sociale e di legge del più forte? Nelle relazioni brevi e in quelle lunghe, nella società e nell’arena mondiale.
In sintesi: una sana laicità prescrive che i “cattolici adulti” politicamente impegnati non “usino” la religione per definirsi in sede politica e magari avvalersene quale titolo di rappresentanza, ma declinino piuttosto le proprie generalità eminentemente politiche; che essi non coltivino la pretesa di una esclusiva nella rappresentanza della fede e della base cattolica in un partito o in una corrente di partito; che, se intendono raccogliere la lezione di Francesco, situandola dentro le attuali coordinate epocali, farebbero bene a chiedersi se la cifra politica più appropriata in cui riconoscersi sia quella del “moderatismo” o non piuttosto quella di una ben intesa radicalità (evangelica) certo elaborata politicamente. Una lezione certo declinata responsabilmente in modi diversi, ma non al punto da annacquarne la sostanza etico-politica.
(Foto: Tânia Rêgo/ABr – Agência Brasil, www.commons.wikipedia.org)