Trump ha accelerato sulla questione Ucraina. Con i suoi tipici metodi rozzi e violenti, ha posto il tema su un terreno molto diverso. Ce lo si poteva aspettare, forse non con questi tempi e questa forma. L’approccio sembra tipico del nuovo imperialismo autocentrato della superpotenza statunitense. La logica è che la Cina è il vero competitore strategico (in questo egli non innova: radicalizza un orientamento già emerso negli ultimi lustri in modo evidente nell’élite statunitense). Quindi occorre concentrare le risorse contro di essa, ed evitare di disperderle in un angolo lontano e marginale del mondo quale l’Ucraina. Compiacendo così Putin, che si punta a blandire per provare a staccarlo dalla dipendenza da Pechino. Quindi: basta finanziamenti a Kyiv. E anzi, pretendiamo dagli ucraini qualcosa in cambio di quello che abbiamo finora dato, cioè il famoso accordo sulle terre rare (che in realtà è un accordo sulla possibilità delle imprese Usa di cercare presunte risorse minerarie, formulato in maniera molto spiccia e neocoloniale). E quindi, infine: trattiamo con Putin per chiudere questa partita irrilevante, per poter concentrarci su questioni più decisive. Se l’Ucraina va ancora difesa, ci pensi l’Europa.
Al netto di tutta la carica di boria e dei modi diplomaticamente inaccettabili, dell’umiliazione di Zelenskyj, dell’irrisione per qualsiasi ragionamento di principio e del fastidio per ogni esigenza di concordare scelte e costruire orientamenti comuni dell’ambito Nato, questo è al momento l’approccio della superpotenza. Si badi: un’accentuazione imperiale può anche nascondere la consapevolezza delle proprie fragilità e debolezze. Ma tant’è: può non piacerci, ma occorre prenderne atto.
Colpisce negativamente il balbettio scomposto degli europei in risposta. E anche una certa curvatura del dibattito pubblico in materia dalle nostre parti. Discutere su come reagire a questa subitanea svolta si può e si deve, ma senza assolutamente trascurare alcuni punti, che qui provo a mettere in forma schematica.
Primo. Non abbandonare Zelenskyj non significa difendere tutto quello che è stato fatto finora. La scelta di sostenere la resistenza ucraina di fronte all’ingiusta e sconsiderata aggressione dell’ “operazione militare speciale” del 2022 è senz’altro comprensibile e rivendicabile, e ora non si tratta di scaricare un alleato divenuto scomodo. Ma occorre ricordare che l’Europa nel suo insieme è stata addirittura più radicale degli Stati Uniti di Biden nel sostenere la posizione assurda per cui – una volta fermata l’invasione – la guerra doveva essere continuata fino a una “vittoria” non mai definita nei dettagli o a una altrettanto non chiara “pace giusta”. Cioè, ci si è fatti prendere la mano dall’ideologia, dimenticando la politica e la diplomazia, che dovrebbero sempre guidare l’uso della forza. L’Europa accetti di dover cambiare metodi.
Secondo. Che Trump la promuova per brutali interessi soggettivi, non vuol dire che la tregua in Ucraina non sia necessaria. Il popolo ucraino ha sopportato il costo umano della guerra, certo anche grazie agli aiuti economici e militari esterni (alla fine più europei che statunitensi). Ora versa in una condizione critica sul piano umano, economico, demografico (a parte le perdite che il governo ha dichiarato aggirarsi sulle 50.000 vite umane, ci sono 4 milioni di esiliati e molti altri profughi interni al paese). Non si può continuare a pensare che si debba prolungare questo sacrificio oltre ogni ragionevole limite, magari per ragioni di equilibrio generale che esulano dalla questione di difendere l’indipendenza ucraina (indebolire Putin?). L’offensiva di fine 2022 e il diversivo della zona di Kursk non sono state in grado di modificare radicalmente la situazione al fronte. Occorre prenderne atto. I cenni che provengono sia da Putin che dallo stesso Zelenskyj mostrano come ci siano ormai le condizioni per sospendere i combattimenti e provare ad avviare un negoziato. Non si può continuare a ritenere che il conflitto debba andare avanti, come ad esempio nell’enfatico comunicato dei gruppi S&D, Ppe, Verdi e Renew al Parlamento europeo del 18 febbraio.
Terzo. Trattare non significa affatto certificare che Putin abbia vinto. La ripresa del discorso diplomatico deve partire infatti da alcuni punti fermi: la Russia non ha occupato l’Ucraina, non ha fatto cadere il sistema politico costituzionale, non ha sostituito (“denazificato”) il governo ucraino come negli obiettivi sbandierati all’inizio del conflitto. L’estensione delle zone sottratte all’Ucraina oltre al consolidamento del controllo del Donbass già iniziato nel 2014 si limita a Mariupol, Melitopol e alla zona costiera del mar d’Azov. Non ha conquistato Kherson né Charkiv. Il dittatore russo avrà il suo daffare a spiegare al suo popolo che questo risultato militare valga le decine (centinaia?) di migliaia di perdite umane che la Russia ha subito nel conflitto. Da qui si parta per un negoziato per niente scontato, probabilmente durissimo, in cui però ci sono margini e punti chiari da ottenere. Si potrà discutere del futuro delle terre del Donbass che certo Mosca non vorrà cedere (rispetto a cui si potrebbe valutare un accordo temporaneo che rinvii ogni soluzione definitiva sulla sovranità): le rivendicazioni russe oltre al territorio attualmente controllato militarmente potranno essere scambiate con la zona di Kursk. Ottenere una porta aperta per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea (ma non nella Nato) potrebbe essere un buon compromesso tra la volontà russa di non avere la Nato ai confini e l’esigenza ucraina di protezione dopo la fine della guerra. Una forza di interposizione internazionale può garantire il primo periodo della tregua. Putin ha il problema delle sanzioni economiche occidentali da ridurre e questo è merce di scambio importante per ogni rivendicazione di Mosca su temi più generali rispetto al futuro dell’Ucraina.
Quarto. Fermare questa guerra non implica affatto favorire altre aggressioni russe. Nella propaganda europea si parla senza limiti delle future pretese di Putin sulla Transnistria, sulla Polonia, sui paesi baltici, che sarebbero incentivate dal “cedimento” sull’Ucraina. Macron ha parlato di una minaccia per la Francia e per l’Europa. Ma siamo realistici: non è questione dell’ideologia o delle intenzioni esibite propagandisticamente dal Cremlino, che sono nazionaliste e belliciste. È questione della dura realtà dei fatti. La Russia ha mostrato i suoi limiti militari contro un esercito modesto come quello ucraino in una dura guerra di tre anni. Si è ben guardata dallo sfidare direttamente la Nato (se non a parole). Ha un’economia traballante, che conta quasi solo sulla rendita petrolifera (il suo Pil è delle dimensioni di quello italiano). Ha limiti demografici evidenti (le perdite umane della guerra sono stimate molto più alte di quelle ucraine). E non ha nessun senso citare l’arma atomica come un elemento di un futuro conflitto: una lezione di questa guerra è che il tabu atomico per fortuna regge. Si può parlare del suo uso, ma non usare l’atomica. Insomma, Putin non è in grado, anche se volesse, di costruire estesi piani espansionistici. Quinto. Se sta tutto ciò, una ferma posizione europea è più che sufficiente a dissuaderlo, anche senza una copertura diretta della Nato. Si può e si deve discutere di difesa europea. Ma partiamo da un aumento delle spese militari che nell’ultimo decennio è già stato significativo. Nel 2024 la spesa totale dei paesi europei è stata di 346 miliardi di euro, più di due volte la spesa militare stimata della Russia (se non si seguono le stime gonfiate dell’Iiss britannico, circolate nei giorni scorsi, diverse dai dati Sipri). Occorre quindi migliorare qualitativamente più che quantitativamente l’attuale situazione, ma non ha senso alzare allarmi ingiustificati e suonare la campana riarmista in modo ideologico. Soprattutto, occorre tornare a considerare la sicurezza un bene politico, di cui fa parte anche la protezione militare, ma soprattutto la capacità di guida e orientamento verso la risoluzione dei conflitti e la costruzione di situazioni più stabili. Cosa che l’Europa è chiamata a fare, se vuole rispondere alla propria identità e vocazione.