Tutte le testimonianze qui raccolte convergono nel mettere l’accento sul profilo di Cesare Trebeschi quale uomo – cito dal bel ritratto tracciato in apertura da Paolo Corsini – “rigoroso e severo”, “fermo e irremovibile nei suoi principi”, “di indefettibile coerenza”, “maestro di vita morale e civile”, “dalla dirittura inflessibile” e “dalla spiritualità esigente”, “dal rigore calvinista”. Al punto da farlo assurgere “per intere stagioni a voce più accreditata e autorevole del discorso pubblico bresciano”. Un ritratto che si rinviene anche nel ricordo intessuto di stima e affetto proposto dall’amico Giovanni Bazoli. Cito: “uomo indipendente da tutto e da tutti, con un’unica guida, la sua coscienza”. Chi lo ha conosciuto non può che confermare.
Trebeschi, pur dotato di una personalità così alta sul piano spirituale e morale, era altresì uomo concreto e competente. Lo dimostrò nello studio della sua disciplina, il diritto amministrativo, nella sua professione di avvocato, nei molteplici servigi resi alla sua città culminati nella esperienza di sindaco dal 1975 al 1985. Due mandati contrassegnati da realizzazioni che hanno lasciato traccia a Brescia: il nuovo piano regolatore che si avvalse del contributo di Luigi Bazoli e di Leonardo Benevolo, il nuovo centro storico, l’università, il Carmine, il quartiere San Paolo, il teleriscaldamento, il complesso monumentale di Santa Giulia. Nonostante un quadro politico-amministrativo piuttosto turbolento.
Tra le pagine più intense e toccanti qui raccolte, le lettere impregnate di alta tensione spirituale da lui concepite per accompagnare ogni figlio e ogni nipote alla prima Comunione. Esse riflettono lo spessore della responsabilità da lui acutamente avvertita del dovere della “consegna” ad essi del bene più prezioso e impegnativo del proprio patrimonio: quello della fede, di una fede consapevole e adulta.
Mi sia permesso integrare questa segnalazione editoriale con qualche ricordo personale. Anche io figuravo tra i destinatari della cartolina che egli indirizzava puntualmente ogni anno agli amici da Gusen, la località del lager in cui si consumò il martirio civile di suo padre Andrea. Uomo legatissimo a padre Giulio Bevilacqua e a Giovanni Battista Montini. Era il modo semplice e, insieme, solenne di Cesare di testimoniare e trasmettere la memoria tragica e sacra di quel sacrificio. Un monito contro la barbarie, una lezione indelebile che l’umanità doveva custodire gelosamente e trasmettere alle nuove generazioni.
Così pure rammento la stima che per lui nutriva il cardinale Attilio Nicora. Attore protagonista nella revisione del Concordato per la parte della Santa sede, ma, da pastore, prima a Milano e poi a Verona, sempre impegnato nella sua predicazione sul tema della spiritualità della politica e dei politici, Nicora additava a modello esemplare i due scritti di Trebeschi rispettivamente titolati “Mattinale di un sindaco” e “Apologia del mugugno” quali rare – in certo modo uniche nel loro genere – preghiere di un politico cui riesce di fare scaturire la preghiera dal vivo e dal concreto del suo servizio alla città. Pure ricordo gli echi che giungevano a noi milanesi della limpida e intransigente testimonianza di un sindaco che, senza nulla concedere all’antipolitica e alla corriva polemica contro i partiti, si mostrava rigoroso e indipendente in un tempo di oggettiva decadenza dei partiti. Ancora in particolare – mi piace accennarlo qui – rammento la considerazione che aveva per lui il professor Giuseppe Lazzati. Il quale teneva moltissimo ad averlo con sé nel novero dei fondatori dell’associazione politico-culturale “Città dell’uomo”, l’ultima creatura del nostro costituente e rettore della Cattolica. Di più: nella conferenza stampa romana con la quale Lazzati volle presentare la neonata associazione gli chiese di sedere al suo fianco insieme a Leopoldo Elia. Molte le affinità spirituali, culturali, politiche tra loro. Affinità anche nel tratto personale della già menzionata severità ascetica e della sua integrità morale. Ancora mi sovviene il ricordo dell’amara ironia con la quale accompagnava la trasmissione delle sue cosiddette “lettere al cestino” delle quali mi metteva a parte. Corsini vi fa riferimento. Si trattava delle sue missive al quotidiano cattolico “Avvenire” la cui direzione, in quegli anni, interpretava una linea piuttosto distante da quella del Concilio e del cattolicesimo democratico e che, assai spesso, appunto rifiutava di pubblicare i suoi scritti che finivano appunto nel cestino. Intendiamoci: scritti non polemici, ma certo schietti e taglienti. Infine, tra i miei ricordi, la notizia riferitami da comuni amici di come, finita la sua sindacatura bresciana, non fu facile, per lui e per il suo studio di avvocato, la ripresa dell’attività professionale. A testimonianza di quanto egli, durante il suo mandato, avesse interrotto rapporti e attività per dedicarsi totalmente alla sua amata città. Nel segno di una netta separazione tra pubblico e privato e della libertà/gratuità del servizio alla polis.