Un trend drammatico all’aumento dei suicidi
Quando il governo delle carceri italiane, responsabile della custodia e della vita di decine di migliaia di persone legittimamente private della libertà personale, resta indifferente, o si limita ad annunciare progetti realizzabili a lungo termine, o addirittura si perita di dare una diversa e rasserenante narrazione dello stillicidio insopportabile di vite umane, significa che è colpevole, insensibile, o quanto meno non vuole capire che questo sistema penitenziario è connotato da logiche di morte e di inimicizia.
Secondo l’ultimo Report del 24 febbraio 2025 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nei primi 54 giorni di questo anno, ben 11 detenuti si sono suicidati, oltre i 10 deceduti per cause da accertare e 29 morti per malattie. Quanti non mai dall’inizio del secolo, in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di farla finita sette agenti di polizia penitenziaria.
Peraltro, diversamente, i Garanti territoriali segnalano 15 suicidi. Un trend che supererebbe quello dell’anno nero, il 2024, con 90 suicidi, il numero più alto registrato in oltre tre decenni di rilevazioni ministeriali, 1892 tentati suicidi, 11723 autolesionismi, 1740 casi di isolamento con evidenti effetti sulle condizioni di salute mentale dei detenuti.
Qualche particolare informazione delinea meglio la disperazione: l’impiccamento, utilizzato in 10 casi su 11 (con corde rudimentali, lenzuola o persino lacci delle scarpe), è stato la modalità più frequente; 3 detenuti erano senza fissa dimora, 2 disoccupati, e solo 2 lavoravano in carcere. Quattro detenuti suicidi nel 2025 erano stati già coinvolti in “eventi critici” (autolesionismo, tentati suicidi), ed 1 era in “grande sorveglianza” per rischio accertato. Eppure, nessuno di loro è stato salvato.
Nove suicidi su undici sono avvenuti nel circuito della media sicurezza, cioè in sezioni a custodia chiusa, tra cui celle di isolamento o ad alto rischio. In queste celle sovraffollate la maggioranza dei detenuti vive, per oltre 20 ore al giorno ed esce solo nelle cd. “ ore d’aria ”. Troppi detenuti vengono, di fatto, lasciati soli con la loro disperazione.
Sovraffollamento che paradossalmente convive con l’isolamento psichico coatto e con la fragilità personologica. Sebbene non vi sia una correlazione diretta, è impossibile ignorare il legame tra suicidi e condizioni carcerarie. Lo ha confermato autorevolmente, in contrasto con la diversa narrazione e certo chiacchiericcio istituzionale, il Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno 2024: “L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili.”
Crisi umanitaria e condizioni insostenibili
Il sovraffollamento è la prima di queste condizioni: per una capienza regolamentare di 51.300 posti letto, invece, sono attualmente presenti 61.916 nella fondata previsione di aumenti nei prossimi mesi. Circa 11.000 in più dei posti effettivamente disponibili. In un anno, quasi quattromila in più. Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il sovraffollamento, per altro verso, riduce il controllo sui detenuti e limita l’accesso a programmi riabilitativi.
Sovraffollamento, condizioni disumane e mancanza di tutela della salute mentale alimentano tragedie annunciate.
Chi visita veramente le carceri oggi non fa fatica a ricordare come erano i manicomi prima della necessaria abolizione. In carcere la presenza di un diffuso disagio psichico rimane una delle problematiche più rilevanti e meno studiate: il 12% delle persone detenute (quasi 6.000 persone) ha una diagnosi psichiatrica grave (Antigone, XX Rapporto sulle condizioni della detenzione). Il 20% persone detenute (oltre 15 mila) fanno regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi.
Il sistema penitenziario italiano continua a fare i conti con una crisi umanitaria senza precedenti. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e disperazione.
Il precedente Garante nazionale, prof. Mauro Palma ha riassunto l’attuale situazione del sistema penitenziario in quattro parole: “affollamento, chiusura, tensione, fragilità”. L’affollamento incide sulle altre tre. Ma incide anche la chiusura, quale prevalente situazione che si riscontra oggi in assenza di attività e progetti, peraltro di difficile realizzazione se si lotta ogni giorno con numeri che superano la soglia tollerabile. Insieme sono premessa per le altre due: per la tensione che ineludibilmente si accentua e che rende difficilissima la vita interna, per chi è ristretto e per chi opera negli Istituti, e per quella perdita di sensatezza e di valore della propria vita che incide particolarmente su persone che stanno vivendo un momento di accentuata fragilità… Quattro parole a confronto, in un complessivo quadro che non sembra in grado di produrre segnali di inversione di rotta. Anche perché il discorso attorno a esse è spesso fuorviato dall’attenzione all’umore e al consenso di quella larga parte della collettività esterna che è tenuta pressata da una gestione della paura che determina facile affidamento a chi gestisce il potere, con piglio duro proponendosi inesauribilmente come garante di una maggiore sicurezza. Eppure, dalle quattro parole che descrivono il presente interno occorre ripartire, per costruire credibili proposte riformatrici”.
Tale situazione non è insuperabile, come hanno dimostrato Governi e Parlamento precedenti che sono stati in grado di affrontare le questioni poste dalle condanne della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (C.E.D.U), tanto che il 5 giugno 2014, ad un anno dalla cosiddetta sentenza pilota “Torreggiani”, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha accolto “positivamente l’impegno delle autorità italiane a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri in Italia e i risultati significativi ottenuti in questo campo attraverso le varie misure strumentali adottate per conformarsi alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.
Nel messaggio di fine anno il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ammonito e auspicato: “Rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere. L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti.”
E papa Francesco, nella Spes non confundit (Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025), tra l’altro non avendo i vincoli della Costituzione italiana, ha potuto insegnare e precisare: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”.
Un auspicabile intervento di clemenza ispirato all’emergenza
È da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno.
Serve un intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori.
Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento.
Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione.
Contrariamente a una errata opinione molto diffusa, quel provvedimento ha dato risultati molto positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti e Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e da cui trarre coerenti conseguenze.
È poi necessaria l’attuazione della Circolare sul riordino del circuito della media sicurezza per quanto riguarda la chiusura delle sezioni ordinarie (DAP circ. n. 3693/6143 del 18 luglio 2022), visto che ora la maggior parte dei detenuti si trova a trascorrere circa 20 ore in celle chiuse. È necessario garantire diverse attività trattamentali: progetti di inclusione socio-lavorativa, attività culturali, ricreative, relazionali.
Bisogna infine garantire l’effettività in carcere della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 in tema di tutela del diritto all’affettività delle persone detenute e del diritto a colloqui riservati e intimi (senza controllo visivo).
(Fotografia di Margherita Lazzati – Casa Circondariale di San Vittore 2019, esposta alla mostra itinerante San Vittore quartiere della città, progetto realizzato da Verso Itaca APS, itinerari di giustizia – Courtesy Galleria l’Affiche, Milano )