Nelle prime settimane della presidenza Trump, il diluvio di annunci, minacce, allusioni e proposte ha ventilato una gamma di indirizzi di politica estera tanto variegata ed eterodossa, e talora indeterminata, quanto già rivelatrice. C’è naturalmente una cifra comune, quella incapsulata nello slogan ‘America first’, che non è tanto il corrispettivo del ‘prima gli italiani’ di Salvini quanto la proclamazione nazionalistica di una politica di potenza per la massimizzazione del predominio economico e strategico degli Stati Uniti.

Un percorso sperimentale e sempre aggiustabile

Ma le strade che portano in quella direzione sono molte, tutt’altro che lineari se non contraddittorie, e comportano un’ampia dose di sperimentazione: si testa, si prova, si sonda e si vede poi cosa si riesce a trarne, adattando metodi e mezzi in corso d’opera.

Le tariffe commerciali, ad esempio, sono simultaneamente: 1) un mezzo di pressione negoziale per ottenere concessioni di altra natura (il controllo sui confini, scelte politiche confacenti etc.); 2) una dichiarazione di principio e una leva operativa per scardinare il multilateralismo liberale; 3) uno strumento di protezione dei produttori americani; 4) un’ipotetica fonte di introiti fiscali: 5) un’arma di guerra commerciale e tecnologica contro gli avversari dichiarati come Cina o Iran (spesso in congiunzione con altri tipi di sanzioni economiche), e varie altre cose ancora. Quale miscela finirà effettivamente per prevalere, tra questi diversi scopi, deriva dalla diversa natura degli interlocutori che Trump vuole condizionare o ricattare, dall’effettivo andamento negoziale (incluso il travaso tra ambiti diversi di contrattazione), dai processi di adeguamento o resistenza che gli annunci innescano. La bussola è sempre l’interesse americano come definito da Trump, ma le aspettative e i risultati stessi saranno costantemente ridefiniti in corso d’opera.

Ci si può aspettare una dinamica analoga anche sugli altri terreni finora privilegiati da questa presidenza, dalle politiche migratorie alla redistribuzione dei costi delle alleanze. I rastrellamenti di immigrati irregolari, i nuovi campi di concentramento e le prime deportazioni sono innanzitutto segnali ai propri elettori e manifestazioni di uno stato punitivo e discriminatorio. Ma sono anche mezzi di pressione sui paesi latinoamericani, africani e asiatici dai quali si esige una nuova malleabilità non solo sul rimpatrio dei deportati, ma su un’infinità di altre questioni: prezzi delle materie prime, accesso di favore agli investimenti delle aziende USA, diminuzione della presenza commerciale cinese etc. Così come le intimazioni agli alleati europei o asiatici per maggiori esborsi per la difesa servono uno scopo fiscale ma possono anche risolversi poi in maggiori acquisti di armamenti americani, o in drastiche ridistribuzioni dei compiti sul terreno (come si ventila con la garanzia europea dopo un eventuale cessate il fuoco in Ucraina), o ancora in condizioni di particolare favore ai giganti tecnologici o energetici americani.

La logica del più forte

Quale sia lo scopo primario, e per quali vie lo si voglia raggiungere, non è probabilmente il quesito giusto da porsi, perché Trump non opera in base a una razionalità strategica, bensì secondo un set di immagini pseudo-storiche, predisposizioni ideologiche e assunti comportamentali riassumibili nel diritto del più forte, la superiorità civile e morale dell’America (bianca), e la fede nell’accrescimento dei capitali come unico paragone morale e sociale.

Bisogna quindi prendere sul serio il suo immaginario, perché è la guida migliore alla sua azione. “Rendere l’America di nuovo grande” significa cancellare decenni di pluralismo liberale per riproporre, invece, lo spirito ottocentesco dell’espansione e della conquista come destino manifesto di un paese che si vuole eccezionale, superiore e innovatore. Da qui il minacciato inglobamento di Panama, Groenlandia, e persino del Canada in un’America di nuovo espansiva. O l’idea d’impadronirsi di Gaza per trasformare una tragedia storica in una gigantesca operazione immobiliare – e sospingere i palestinesi sulla via dell’estinzione, come fu per i nativi americani.

Può anche darsi che questi scenari non si realizzino, ma questi sono i termini in cui l’amministrazione vede il ruolo futuro dell’America: potenza dominante che intende espandersi ancora e imporre non solo i suoi interessi ma la sua volontà, ritenendola la via per “una nuova età dell’oro” da offrire ai grandi investitori che lo sostengono e, assai più indirettamente, ai suoi elettori.

Accaparrare risorse e sfere d’influenza crescenti è per Trump anche il modo (insieme alla preminenza tecnologica) per dominare la competizione con il grande antagonista cinese e con rivali minori. In un mondo di grandi potenze rivali che non possono spingersi al conflitto finale in ragione della distruttività nucleare, l’antagonismo si gioca sul dominio dei grandi vettori di crescita: risorse primarie, spazio, tecnologie, capitali. E sull’evitare di essere invischiati in conflitti tangenziali o in regole limitative.

Liberarsi dai vincoli, dagli alleati, dalle istituzioni, dai condizionamenti democratici

Da qui la centralità e priorità dell’opera di “liberazione” dai legami delle alleanze, dai principi che esse più o meno retoricamente incarnano (e in cui i trumpiani comunque non credono, perché vedono nella democrazia un vincolo e non un valore), dalle norme e pratiche della cooperazione multilaterale. Il far pagare agli altri il costo della garanzia americana di sicurezza è in realtà solo il pretesto per destrutturare profondamente delle alleanze ritenute ormai non necessarie, e recuperare una piena libertà di movimento unilaterale per gli USA – come mostra plasticamente la ricerca del cessate il fuoco con la Russia a spese di Ucraina ed Europa.

Che l’Europa e segnatamente l’Unione europea siano nel mirino non deve perciò stupire. Si tratta in fin dei conti del maggior partner e rivale commerciale, ma soprattutto dell’incarnazione di un’idea di società fatta di checks and balances, di pluralismo democratico, e di una sia pur minima regolazione (e tassazione) del capitalismo di mercato. In chiave simbolica, è un’antitesi – assai più di quando non lo siano i regimi dittatoriali – di ciò che i trumpiani cercheranno di edificare: un regime monocratico in cui l’esecutivo, svincolato sia dalla legge che da un vero controllo parlamentare, abbia piena libertà d’azione ed operi attraverso un’amministrazione vincolata all’obbedienza e fedeltà, come lo sono quelle aziendali verso il loro Amministratore delegato.

Prospettiva domestica e prospettiva internazionale di una presidenza letteralmente imperiale perciò si fondono. Perché la vera bussola seguita da Trump è quella di demolire il sistema della cooperazione internazionale, la rete delle regole multilaterali, le istituzioni e lo spirito stesso della collaborazione (globale o regionale che sia), oltre ovviamente al suo presupposto etico e ideale di una singola umanità che cerca di gestire le proprie differenze in chiave multiculturale e multirazziale. Nel suo sistema schiettamente gerarchico la potenza discende ovviamente da fattori materiali di forza e ricchezza, ma coincide con una rinnovata geografia razziale che distingue la civiltà bianca dai gruppi moralmente inferiori (gli immigrati), dalle società incapaci di autogoverno (i palestinesi) o anche solo dai governi inefficaci e indegni (Panama e domani magari Cuba).

Il mondo che Trump cerca di ridisegnare vorrebbe quindi un capitalismo liberato da ogni vincolo, proiettato a controllare direttamente la sfera politica per mezzo di un nuovo coacervo d’interessi eretto a vertice dello stato, con la democrazia ridotta a mero esercizio plebiscitario entro una sfera (dis)informativa plasmata dai giganti digitali, ed impegnato a rimodulare le relazioni internazionali come transazioni commerciali fondate sui meri rapporti di forza. La legge della giungla, dunque, quella fatta dai grandi predatori.

(Foto di LOGAN WEAVER | @LGNWVR su Unsplash)

  • Ha insegnato Storia dell'America del Nord all'Università degli Studi di Firenze ed è professore emerito all'Istituto Universitario Europeo (Fiesole)