Prepararsi alla guerra è realismo?
C’è chi si sta affannando a spiegarci che è bene che la guerra sia tornata all’ordine del giorno dei nostri tempi. E che l’Europa dovrebbe fare in fretta a dismettere l’atteggiamento illusorio da «anime belle» che ha coltivato distratta lungo tutti gli ultimi decenni, prendendo invece sul serio l’appello alla preparazione militare. È tornato di gran moda il si vis pacem para bellum, nientemeno. Finalmente si torna al realismo! La ricreazione è durata anche troppo!
L’appello al realismo, però, difficilmente può essere preso per oro colato, quasi che si possa parlare di una realtà data ed evidente. Ognuno vede la realtà che vuole, o almeno che i suoi occhiali culturali e psicologici gli consentono di vedere. Ciascuno di noi ha una percezione del mondo che non può che essere parziale. Rifiuto nettamente l’idea che il realismo condanni a considerare strutturale la violenza bellica: l’umanità ha conosciuto infatti anche mezzi molto diversi per regolare e gestire i propri conflitti e le proprie divergenze, quelle sì strutturali e forse anche «naturali».
In questo orizzonte, la conoscenza storica qualcosa di solido e consistente peraltro ci dice, proprio sull’Europa, la sua genesi e i suoi destini. Agganciamoci ad alcune consapevolezze che una lettura di lungo periodo ci consegna. Vorrei provare a evidenziare due concetti cruciali: l’Europa ha dominato veramente il mondo più per i suoi successi economici, tecnologici e culturali che per la propria forza militare; l’Europa ha conosciuto il vertice di questo dominio proprio nel momento in cui ha limitato la guerra al proprio interno. Intendiamo qui l’Europa una come realtà civile, culturale e politica che ha avuto una sua identità, pur mobile e mai definibile in modo astratto – come una pletora di studi ha puntualizzato – pur essendo da moltissimo tempo una realtà plurale al proprio interno, al contrario dei grandi imperi unitari e centralizzati della tradizione classica o di quelli sviluppatisi su altri continenti.
Il dominio europeo del mondo e i suoi mezzi prevalentemente pacifici
Primo tema: che l’Europa abbia alle sue spalle una stagione di dominio (anche imperiale) del mondo, nessuno lo può negare. E anzi oggi questo importante (e ingombrante) passato è al centro di un’ondata di riflessioni autocritiche di portata molto aspra e affilata. Sta di fatto che questa stagione di primato europeo non è affatto legata a qualche condizione oggettiva o naturale: a lungo nella storia la civiltà europea (per quanto riguarda economia, scienza, tecnologia, cultura, armi) è stata inferiore, o simile, o al più paragonabile a quella di altre civiltà del mondo (Persia, Islam, Cina, Giappone…). Il predominio è stato quindi un fatto storico: iniziato ad albeggiare nel ’500, a seguito di un percorso ambizioso di «scoperta» del resto del globo e di progressiva estensione dell’influenza europea fuori dal continente, è divenuto vero e proprio dominio solo nel corso dell’Ottocento, quando gli equilibri sono definitivamente cambiati. Da allora, l’Europa ha consegnato al mondo tante cose. Si pensi solo ad una di esse: l’organizzazione politica statuale, che ha via via sostituito le forme di comunità politica conosciute altrove, diverse e non riducibili al concetto di «arretrate», ma che alla fine si sono dimostrate incapaci di competere con il modello statuale. Sta ancora di fatto, però, che nel delineare questo predominio hanno contato molteplici fattori.
Credo che oggi nessuno storico sosterrebbe decentemente che si sia trattato di un dominio imposto sostanzialmente o prevalentemente con la forza militare. L’Europa è riuscita a guidare una vera unificazione del mondo, gestendola con notevole superiorità, proprio quando gli effetti delle trasformazioni interne sul piano politico e soprattutto sul piano economico e sociale (leggi rivoluzione industriale) hanno iniziato a differenziare strutturalmente la potenza produttiva e la capacità di influenza europea da quella delle altre civiltà. Cosa è stato più determinante in questo vero e proprio salto di qualità ottocentesco? Le pezze di cotone a buon prezzo di Manchester, le efficienti macchine a vapore finalmente messe a punto da Watt, la capacità di movimentare uomini e merci con la novità delle strade ferrate, la costruzione di un pratico sistema finanziario, la cultura scientifica e razionale, l’invenzione del telegrafo per velocizzare i flussi di notizie, oppure il perfezionamento dell’uso della polvere da sparo (arrivata peraltro dalla Cina)? Lungi da me negare che ci sia stata anche una dimensione militare in questa ascesa: la mitragliatrice Gatling ha risolto una serie di conflitti e le cannoniere britanniche hanno vinto la cruciale «guerra dell’oppio» risalendo i fiumi cinesi con efficacia deterrente. Ma l’elemento militare – qui sta il punto – era derivato e servente rispetto a un primato che si giocava primariamente e massicciamente su altri fronti: appunto l’efficienza, la produttività, il miglioramento tecnico, il commercio, il benessere, la salute, il controllo della natura. Non a caso il dominio europeo è stato per parecchi decenni prevalentemente affidato a dinamiche informali, alla negoziazione politica del libero scambio, alla spontanea capacità di affermazione delle merci europee sui mercati. Si è tradotto in un’estesa forma di imperialismo politico-militare colonizzatore solo nell’ultima fase, a partire dal 1880 e fino alla Prima guerra mondiale, per ragioni che qui sarebbe lungo descrivere. E anzi, possiamo anche dire che proprio la sua trasformazione militare abbia forse concorso a un’estensione temporale dell’influenza, durata alcuni decenni, ma anche al superamento del vertice della sua parabola, fino all’inizio della sua decadenza. Ma per spiegare questa decadenza conta moltissimo il secondo ragionamento annunciato sopra.
Il dominio europeo coincise con la pace interna all’Europa
Secondo concetto, quindi. In effetti, il punto più alto dell’influenza europea si verificò proprio nel periodo in cui il continente, con la sua irriducibile pluralità interna, aveva trovato e messo alla prova una sorta di stabilità, che per un secolo ridusse la frequenza e la distruttività delle consuete guerre intestine. L’Europa non era mai appunto totalmente coincisa con un impero unitario (come altre civiltà parallele, si pensi alla Cina). Il suo pluralismo era stato altamente competitivo e conflittuale. Ma dopo la stagione convulsa delle rivoluzioni politiche e dopo il ciclo delle guerre napoleoniche, si trovò un periodo in cui le classi dirigenti (allora ancora prevalentemente aristocratiche, ma in via di progressivo allargamento borghese e financo democratico) scelsero di percorrere una strada di compromessi, mediazioni, gestione comune delle crisi (benché verticistica e non sempre efficacissima). Questo «concerto europeo» ottenne sostanzialmente che non ci fossero guerre maggiori in Europa per cent’anni, fino alla tragedia del 1914. E in realtà la cultura comune europea dell’epoca fece sì anche che le poche guerre interne che alla fine scoppiarono (si pensi a quelle per l’unificazione italiana e tedesca) fossero limitate, al servizio di fini politici specifici e circoscritti e non di una pretesa di annullamento dell’avversario.
Le cose però cambiarono lentamente e per una somma di motivi congiunti si arrivò invece al nuovo conflitto europeo globale della Prima guerra mondiale: una guerra non cercata esplicitamente forse da nessuno, ma certo prevista e calcolata da quasi tutti gli attori del sistema come una possibilità ritenuta governabile (non regge la fortunata immagine degli europei «sonnambuli», che precipitarono nel conflitto senza accorgersene). La guerra si rivelò più lunga e distruttiva del previsto, tramutandosi presto in un conflitto di logoramento e di massa che per ragioni intrinseche divenne sempre più totale e distruttivo. L’unico obiettivo divenne la vittoria. La guerra totale, invenzione europea, fu fermata per esaurimento di uno dei fronti nel 1918, ma si riaccese, come è noto, vent’anni dopo. Si entrò quindi in un ciclo di distruttività che condusse nel giro di trent’anni il continente a un irreversibile declino della propria centralità nel mondo, in parallelo alla crescita di poli di potere esterni.
Uscire dalla “guerra civile europea dei trent’anni”
La civiltà europea si trovò ad uscire da questa lunga e tremenda «guerra civile» fortemente indebolita e impoverita. Tanto che gli imperi coloniali europei più o meno simultaneamente si esaurirono proprio nel periodo post-bellico. E però, la duplice lezione della storia sembrò lentamente essere stata colta. Primariamente, ci si orientò a ridurre le possibilità dello scontro interno, mettendo al bando le occasioni per le guerre civili europee. Non fu un percorso semplice, né teleologicamente definito. Anzi. Iniziò nel sospetto e nella reciproca preoccupazione, tra nemici le cui ferite non si erano ancora rimarginate. Ma mise capo nel giro di qualche decennio a una Comunità che non per caso ebbe modo di estendersi progressivamente quasi a raggio continentale. Si può ben dire che questa Comunità (poi Unione) poté dedicare meno attenzione alla propria sicurezza perché stava sotto la protezione politico-militare statunitense. La quale beninteso non era gratuita, ma ben compensata dalla eliminazione di ogni vecchia logica economicamente esclusivista o addirittura imperiale europea: il mercato unico favorevole alle merci americane compensava la protezione militare. Ma – e questo è il secondo e speculare aspetto di questa dinamica – la riduzione del ricorso alla forza per costruire influenza esterna non poteva essere solo frutto delle contingenze del caso. Non poteva che essere almeno in parte una conseguenza della riflessione autocritica sulla tragedia della «guerra civile europea dei trent’anni» e un ritorno travagliato alla lunga coscienza storica di cui sopra: l’Europa già padrona del mondo poteva continuare a influire sugli altri popoli solo e soprattutto usando modalità diverse dalla violenza armata. La parabola degli ultimi ottant’anni questa influenza esterna – economica, sociale e culturale – l’ha vista certamente rinascere. Ma guarda caso, si tratta proprio delle due grandi acquisizioni che oggi sembrano essere rimesse profondamente in discussione. Sarà che la smemoratezza è uno dei mali del nostro tempo?
(Foto: www.wikipedia.org – Abraham Ortelius Map of Europe)