La seconda elezione di Trump, dopo una campagna elettorale incerta e un risultato apparentemente chiaro, tende ad essere interpretata come un segnale forte di svolta, quasi una conferma dell’avvio definitivo di un’epoca di egemonia di una destra radicale nelle democrazie occidentali. Lo hanno scritto diversi osservatori, da destra o da sinistra, sollevati o rammaricati. Può essere. Anche se, all’occhio di chi è abituato alla mentalità storica, val la pena di ricordare che i contemporanei non sempre sono nella posizione migliore per leggere le grandi fasi dell’evoluzione umana.
Non avendo argomenti per negare frontalmente questa rappresentazione, vorrei qui solo inserire due tipi di ragionamento, che mi pare possono però contribuire a collocare questo discorso in una prospettiva un po’ diversa. In primo luogo: veramente Trump ha stravinto le elezioni? Quasi tutti hanno inizialmente parlato di una landslide victory (vittoria a valanga) in termini di voti nel collegio elettorale, con la conquista di tutti gli stati in bilico, ma anche con la vittoria estesa al conteggio dei voti popolari, cosa piuttosto eccezionale per i repubblicani in tempi contemporanei. In realtà, un’analisi un po’ più ravvicinata dei dati numerici del voto (dopo due settimane siamo ormai in una situazione non ancora definitiva, per le lungaggini dello scrutinio, ma quasi completa) parla di una situazione un po’ diversa: più che una straordinaria vittoria di Trump, si è trattato in realtà di una cocente sconfitta di Kamala Harris. Intendo dire che Trump, in termini di voti popolari, ha preso circa 76 milioni di voti, mentre ne aveva ottenuti 74 nel 2020 quando aveva perso (aumentando comunque sensibilmente i suoi voti, rispetto alla vittoriosa campagna del 2016). Il che significa sostanzialmente che si è verificato un consolidamento del suo elettorato, al più potremmo parlare di un modesto aumento, non certo di uno sfondamento epocale. Il problema sta dall’altra parte: Harris ha ottenuto circa 73 milioni di voti, mentre Biden era arrivato addirittura a più di 81 milioni, solo quattro anni fa. Si tratta cioè di un arretramento addirittura drammatico: mancano 8 milioni di voti, che non hanno seguito la scelta espressa solo quattro anni prima. Nonostante le aspettative e tutta l’apparenza parlassero di una mobilitazione elettorale cospicua, dovuta proprio alle caratteristiche tesissime e incerte della competizione, molti votanti democratici sono fuggiti nell’astensionismo.
Tale lettura complessiva si complica peraltro leggermente se si vedono gli andamenti negli Stati-chiave, dove la lotta è stata più serrata, la presenza dei candidati più assidua, lo scontro più vivace, i soldi spesi in propaganda molto più cospicui, il tasso di partecipazione al voto in crescita. Qui ci sono alcuni casi, soprattutto gli Stati del Nord e del Midwest (Michigan, Wisconsin e Pennsylvania), dove Trump ha guadagnato una quota rilevante di voti strategici, superando comunque di misura una rivale che confermava più o meno – o talvolta addirittura aumentava – i voti democratici di quattro anni orsono (le differenze sono rispettivamente di 30.000, 80.000 e 130.000 voti). Quindi non c’è stata valanga, ma Trump ha ampliato selettivamente ed efficacemente a livello locale il consenso.
Naturalmente si può ragionare a lungo sulle cause di questo andamento. Ma sembra certo che non si debba parlare primariamente della capacità espansiva del messaggio urlato, sguaiato, a volte incoerente, vago e menzognero di Trump. Bisogna piuttosto analizzare i limiti degli avversari. Naturalmente è scorretto dare tutta la colpa alla candidata, come si è iniziato ingenerosamente a fare nel partito sconfitto: la vicenda è partita male fin dall’inizio, con la lunga e strisciante resistenza di Biden a farsi sostituire, con la scelta tardiva come candidata della vicepresidente, che a sua volta era stata scarsamente valorizzata nel corso del mandato di quattro anni. O dovremo considerare anche la possibilità – mi consentano i fautori più rigidi della political correctness – che forse la complicata e spesso farraginosa democrazia americana non sia ancora pronta ad eleggere un presidente donna, e donna di colore? Altri errori sembrano essere stati palesi, con qualche eccesso della retorica woke, con la gestione incerta della questione della sicurezza (Harris che confida di tenere una pistola…), con un forte eccessivo investimento sulla questione dell’aborto (su cui le posizioni liberalizzanti sono popolari, ma incontrano anche selettive resistenze) e soprattutto con la subalternità a un approccio anti-avversario (imposto dal debordante candidato repubblicano) più che serenamente propositivo.
Sui cruciali temi economici, alcuni analisti hanno poi segnalato che Harris ha scontato una condizione non facile rispetto al nesso tra condizioni economiche del paese e popolarità dell’amministrazione di cui aveva fatto parte. Gli Stati Uniti vivono un apparente paradosso, avendo tutti i dati macroeconomici positivi (Pil, occupazione, moneta), che però non hanno portato consensi al governo in carica. A giustificare i risultati brillanti dell’economia a stelle e strisce ha contato molto una serie di scelte di Biden, che ha immesso notevolissime risorse in una nuova politica industriale (si pensi al Chips Act per sostenere la produzione nazionale di processori), in sussidi per superare gli effetti del Covid, in investimenti e incentivi fiscali per trasformare la transizione ecologica in un motore di crescita e benessere (Inflation Reduction Act), in sostegni al reddito delle classi povere (ad esempio aumentando la quota di coloro che sono coperti da programmi sanitari pubblici o negoziando con Big Pharma per ridurre i prezzi dei medicinali). Ma il paese – come del resto tutto l’Occidente – ha sperimentato in questi anni anche un ciclo inflattivo, che appare ormai sotto controllo, grazie anche alle politiche di Biden, ma ha lasciato nella classe media e nelle élites popolari il senso di una perdita di potere d’acquisto che ha causato forti danni all’immagine dell’amministrazione, sfruttati abilmente dalla retorica basilare di Trump (ricordate i siparietti sulle uova e il bacon).
Di fronte a questo scontento – intendiamoci, più frutto di una rappresentazione che di una sostanza – Kamala Harris ha tentennato, quasi incerta nel difendere il proprio ruolo di condivisione delle scelte di Biden, mostrando a volte di non dominare le questioni concrete, ma soprattutto non sostenendo coerentemente la prosecuzione decisa di un programma di investimenti pubblici anti-austerity, e ripiegando su un modello di «prosperità condivisa», che assomigliava troppo ai tentativi edulcorati di quella sinistra liberale che, negli Usa come in Europa, sta raccogliendo ben poco consenso. Ricordate soprattutto, come esempio di questo atteggiamento, l’insistenza sulla capacità di attrarre voti dei repubblicani moderati, facendosi accompagnare spesso da Liz Cheney (ahimè, una tipologia drammaticamente esile, come si è visto).
Insomma, le cause della sonora sconfitta sono sicuramente molteplici e plurali. Difficile dire qualcosa di preciso e definitivo in materia, se non che la controparte democratica ha moltissimo su cui riflettere in termini tattici e strategici (guarda caso, come quasi tutte le sinistre democratiche occidentali). Detto questo, e quindi considerata attentamente la serietà della situazione, non si tratta di una vicenda che possa far già dar per scontato l’avvio di un ciclo di egemonia permanente della destra trumpiana, come la vittoria di Reagan nel 1980, tanto per intenderci.
Il grande paese resta polarizzato e diviso, si è colorato di rosso – il colore repubblicano – solo sulla superficie, non nelle profondità della società. I parametri di polarizzazione già noti – genere, istruzione, densità abitativa – rimangono forti. Ampio è il divario tra voto femminile e maschile, tra centri urbani e periferie rurali, tra popolazione con studi elevati e senza diploma, tra bianchi e minoranze (anche se in questo caso si riduce la differenza, soprattutto tra i latinos). In generale, questo è un elemento che conferma come la battaglia resti del tutto aperta, e che i giochi sembrano ancora affidati a cambiamenti e oscillazioni anche superficiali e non sempre facili da controllare.
Il secondo punto su cui riflettere sono quindi le conseguenze di un voto siffatto. Qualcuno ora pronostica un cambiamento radicale della politica degli Stati Uniti, sia nel mondo internazionale che all’interno. Un governo Trump 2.0 radicalmente rivoluzionario sarebbe pronto a cambiare profondamente lo scenario che conosciamo. Non dimentichiamo però che il soggetto l’abbiamo già visto in azione, non è che sia una novità. Abbiamo già sperimentato – o meglio, hanno sperimentato soprattutto i cittadini statunitensi – le scarse capacità di governo, le difficoltà nel perseguire efficacemente i propri programmi, le incoerenze di un’azione incapace di tener dietro alle roboanti retoriche della campagna elettorale, lo scarto tipico di molti populisti tra abilità a costruire consenso e difficoltà a gestire le istituzioni (tipici i balbettii sulla lotta contro la pandemia). Conoscendolo già, possiamo in qualche modo prefigurare quello che succederà con qualche ragione storica dalla nostra parte, anche se le cose possono sempre cambiare. Al netto di una sua radicalizzazione personale, di una volontà di rivincita sull’apparato istituzionale che non lo ha sostenuto nel primo mandato, delle (risicate) maggioranze nelle due camere del Congresso, delle prime scelte di collaboratori francamente incredibili e apparentemente fatte più per stupire e per continuare l’operazione di propaganda che per cambiare sostanzialmente le cose. Al di là della stessa ingombrante presenza di un sostenitore-finanziatore-suggeritore come Musk, la cui bulimia comunicativa è addirittura maggiore della sua efficacia manageriale.
In termini sintetici, cosa ci insegna la storia del passato term trumpiano? Sicuramente dovremo aspettarci un governo sostanzialmente allineato sulle posizioni di una destra ultraliberista convenzionale in politica interna. Che peggiorerà più o meno drasticamente le condizioni di vita di milioni di immigrati undocumented, forse appoggiandosi anche su politiche inedite e violente. Che aprirà un conflitto ulteriore con l’apparato statale per ridimensionarne il peso. Che farà una classica operazione di finanziamento dell’industria delle armi. Che si appoggerà – come è evidente dalle prima nomine – sull’industria estrattiva per ridurre ogni spazio a politiche green. Che ridurrà ulteriormente le tasse per l’élite finanziaria. Che aumenterà il cospicuo debito statale. Una rivoluzione? Beh… non proprio, considerando le vicende passate.
In termini internazionali, certamente si accentuerà l’unilateralismo degli Stati Uniti (qualcuno usa la classica espressione «isolazionismo», che però mi sembra meno chiara): crescita dei dazi doganali, riduzione di impegni e alleanze, revisione di vincoli multilaterali, abbandono di trattati di cooperazione. Ma anche in questo orizzonte, chi si aspetta rivoluzioni come lo scioglimento della Nato, l’accordo con Putin sull’Ucraina o la guerra commerciale con la Cina, probabilmente prende troppo sul serio la propaganda del presidente eletto. La sua vantata capacità di concludere i conflitti va vista nella luce dell’ondivago comportamento del Trump 1 in Afghanistan, Siria, Iraq. La sua pretesa di superare i vincoli della globalizzazione e riportare all’interno del paese le produzioni strategiche non ci deve far dimenticare che è stato Biden a mettere in campo monumentali finanziamenti per impedire l’eccesso di dipendenza dai produttori orientali in campi divenuti strategici. Chi pensa a un’ondata protezionista deve ricordare che i dazi del Trump 1 colpirono selettivamente alcuni paesi, ma furono una manovra sostanzialmente propagandistica, senza certo mettere in crisi radicalmente l’interdipendenza commerciale con la Cina. Anche perché, come è noto, separare nettamente le economie si tradurrebbe in una nuova botta di aumento dei costi per il consumatore americano, che avrebbe conseguenze sul consenso politico. Certamente, le politiche ambientali pro-fonti fossili e il possibile ulteriore ritiro dagli accordi sul cambiamento climatico aggraveranno il ritardo del paese sul punto, e qui sì potranno dare un colpo alle speranze di raggiungere obiettivi significativi (anche perché andranno assieme ad altre scelte analoghe fuori dagli Usa).
La razionalità storica, che identifica gli elementi di continuità, questo ci dice. Non pretendo che essa spieghi tutto, per cui dobbiamo essere legittimamente attenti e preoccupati a quello che succederà. Aspettarsi il peggio non è da escludere. Ma avviare nel frattempo un ragionamento politico sulla sconfitta e sui modi per provare a invertire la rotta è indispensabile. Non rassegnamoci a un presunto ciclo di egemonia di una destra radicale prima ancora di vederlo nascere.
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