La votazione del parlamento europeo per la presidente della Commissione Ursula von der Leyen è stata la ricaduta più diretta del turno elettorale di giugno. Il dato politico e il suo contesto meritano alcune riflessioni. La presidente della Commissione, dopo la designazione da parte del Consiglio europeo, ha ottenuto la riconferma con il voto del Parlamento, con una maggioranza che non è stata alla fine condizionata dal compromesso di cui si vociferava tra il PPE e i gruppi alla sua destra. Anzi, una ripresa del discorso sul Green Deal, piuttosto ridimensionato nel corso dell’ultima legislatura, ha permesso al gruppo dei Verdi di entrare ufficialmente nella cosiddetta maggioranza “Ursula”. Ciò nonostante, la tendenza generale dell’elettorato a destra nelle elezioni europee non ha mancato di avere qualche conseguenza politica nella vicenda.
Il discorso di presentazione della candidatura – con le collegate Guidelines analitiche e ampie – ha spaziato su moltissime questioni, sintetizzate nell’idea di “un’Europa più forte, che garantisce prosperità, che difende la democrazia, che protegge i cittadini, che si attiene agli obiettivi del Green Deal con pragmatismo e neutralità tecnologica”.
Come ci si poteva aspettare, in questo orizzonte, ha assunto una nuova centralità la questione della sicurezza, motivata dalla condivisibile considerazione secondo cui l’ambiente internazionale è diventato negli ultimi anni molto più complicato e imprevedibile. “Si è passati dalla cooperazione alla competizione”. Uno scenario che avrebbe fatto capire come la pace non fosse un dato scontato. Per questo, ha continuato von der Leyen, “Esamineremo tutte le nostre politiche attraverso una lente di sicurezza. Pianificheremo scenari che speriamo non si verifichino mai, ma non possiamo correre il rischio di essere impreparati o troppo dipendenti”. Quindi, è necessario essere “più assertivi” – il concetto appare più volte nelle Guidelines – con un “approccio più strategico al nostro vicinato”, per difendere i nostri valori contro le dittature e per ristrutturare il sistema economico internazionale e “proteggere le nostre economie”.
Qui però sta un punto che ci sembra della massima importanza politica. La tesi della necessità di costruire una sicurezza più solida dell’Europa è sembrata essere unilateralmente impostata sul piano industriale e militare. L’obiettivo è stato delineato come la costruzione di una Unione europea della difesa, basata sulla cooperazione UE-Nato e sul concetto secondo cui occorra “spendere di più, spendere meglio, spendere assieme”. E anche come un’Unione della preparazione e della prevenzione, che insiste sugli scenari peggiori dell’evoluzione del mondo, da scongiurare attraverso investimenti in cybersicurezza, sicurezza sanitaria, sicurezza migratoria e deterrenza strategica.
Insomma, non una parola sulla capacità europea di applicare politica e diplomazia per cercare con decisione la risoluzione dei conflitti, o almeno l’abbassamento del tasso di violenza nel sistema locale e in quello internazionale (un solo modesto cenno all’impegno per un cessate il fuoco a Gaza). Pochi marginali cenni agli strumenti della cooperazione internazionale, all’allargamento delle intese tra Stati e tra organizzazioni internazionali per costruire forme multilaterali di dialogo e comprensione (solo un riferimento al Mediterraneo e all’America Latina). Non un riferimento all’originalità del processo di integrazione europea come esperienza capace di metabolizzare l’eredità difficile degli scontri nazionalistici e della storia delle guerre continue nel continente.
Insomma, se questo è il volto di una maggioranza europeista, sembra cambiato il mondo rispetto soltanto a qualche lustro fa, quando l’Europa costruiva la sua identità attorno al concetto di “potenza civile” (espressione che risale addirittura agli anni ’70, ma che ha avuto dopo il 1989 il suo momento di gloria). Una visione che trovava la sua identità proprio nell’alternativa alla militarizzazione del mondo, senza sottrarsi alle turbolenze globali nella illusione di una neutralità del Vecchio continente e senza nessuna tentazione di un qualche “splendido isolamento” nel proprio benessere. L’immagine alludeva invece alla possibilità e alla capacità della comunità (e poi dell’Unione) di influire sull’ambiente esterno proprio mettendo assieme le straordinarie risorse complessive degli Stati membri, per giocare quindi politicamente una capacità di attrazione indubbia esercitata proprio dall’itinerario di evoluzione comunitaria interna. Era uno schema mentale che trovava il proprio orgoglio nella capacità di offrire un modello per altre esperienze regionali, per la gestione dei rapporti esterni oltre i confini geopolitici e strategici dell’Europa, per mettere in atto le proprie partnership globali.
Si potrebbe dire, come qualcuno continua a ricordarci, che quelle immagini erano troppo illusorie, erano ingenue e forse sovradimensionate. Si ricorderà il pamphlet di Robert Kagan: gli europei si illudono di derivare da Venere, mentre noi americani siamo figli di Marte. Le guerre recenti avrebbero finalmente fatto aprire gli occhi della realtà ai teorici astratti della “potenza civile”. Può esserci un elemento di verità in questo ragionamento. Ma il passaggio a una visione totalmente contrapposta è troppo netto per essere giustificato. Correggere alcune astrattezze del passato, rafforzare l’elemento difensivo, bilanciare discorsi troppo ambiziosi, sarebbe un conto. Adattarsi a una ideologia della guerra senza limiti è una prospettiva del tutto diversa e molto discutibile.
Non può trattarsi solo di una qualche lezione dei fatti: sembra manifestarsi l’effetto di un vero e proprio mutamento di cultura politica e di orientamenti della mentalità. Diciamolo così: la maggioranza europeista attuale, che meritoriamente chiede “più Europa” e difende i vantaggi dell’integrazione rispetto alla scomposta critica sovranista e al rigurgito di destra diffuso in tutta Europa, è stata condotta negli ultimi tempi a modificare sensibilmente le proprie radici e forse anche i propri valori. C’è una dinamica in atto che suona molto problematica in proposito, ma che non è per la verità recentissima, anzi, affonda le sue origini in processi pluridecennali.
Proviamo a schematizzarli. Si può pensare all’allontanamento del PPE dalle sue origini democristiane, con una progressiva torsione verso un conservatorismo moderato che data almeno dall’epoca in cui Kohl puntò senza remore a un allargamento a destra per contrastare l’egemonia socialista in Europa: dall’ingresso di Forza Italia in poi, non dimentichiamo che i popolari hanno metabolizzato per un periodo addirittura Orbán e la sua Fidesz (salvo ripensamento dell’ultima ora). Si può infatti dire molto in senso critico della tradizione politica democristiana, ma certo non si può dimenticare che il sobrio senso nazionale e occidentalista del PPE delle origini andava assieme a un favore per le soluzioni diplomatiche dei conflitti e a un’attenzione alle partnership cooperative, che portava a controllare ogni pulsione militarista.
In parallelo, il mondo socialista del PSE ha conosciuto un’evoluzione che dai tempi dello scontro tra Brandt e Schmidt ha riprodotto un progressivo slittamento di molti partiti e gruppi di questa area verso posizioni liberali all’interno e rigidamente atlantiste all’esterno, ridimensionando il classico internazionalismo e la logica della fraternità dei lavoratori, oltre all’approccio mediatorio verso gli avversari globali. In questo campo, peraltro, forti tensioni sono ancora presenti: se si segue il dibattito nel caso italiano del PD se ne ha consapevolezza, ma si può considerare anche il caso tedesco, con il cancelliere Scholz accusato recentemente da una parte del suo partito di essere ancora troppo ambiguo con la Russia.
Non si può trascurare nemmeno l’effetto dell’allargamento verso Est degli anni Duemila: si sono inseriti nella comunità paesi che venivano dai traumi dell’occupazione sovietica e del dominio comunista. E che coltivavano i germi di una reazione antirussa e di una istanza di protezione che trovava necessariamente rifugio nell’orizzonte militare. E in effetti la Nato si era allargata ad Est prima dell’Ue. Ma anche in questo caso, non si può attribuire troppe colpe a un processo che per molti versi era necessario, e che casomai doveva essere gestito dei paesi fondatori ed egemoni in modo meno particolaristico e competitivo, più lungimirante e aperto alla costruzione di progetti di integrazione aperti, senza insistere sulle istanze di chiusura difensiva.
Un altro punto critico è naturalmente legato al fatto che l’influenza politico-diplomatica dell’Europa non può che essere proporzionata alla sua coesione e alla sua capacità di convergere nelle mete politiche. A questo proposito, la storia si è incaricata di troppe smentite. Dalle contrapposizioni interne tra Francia e Germania sulla dissoluzione tragica della Jugoslavia, alle incertezze di fronte alle guerre statunitensi di “esportazione della democrazia”, fino alle ambigue concorrenze nella gestione dei rapporti con la Russia di Putin pre-2022, siamo di fronte a un lungo catalogo di autogol dell’Europa. Un’Europa che non parli con la stessa voce, naturalmente non può essere politicamente efficace nel mondo.
Infine, non si può trascurare la questione dei rapporti Europa-Stati Uniti e quindi della sopravvivenza e della strategia della Nato. La rinascita del ruolo politico della Nato dopo l’aggressione russa all’Ucraina ha sicuramente condizionato la linea europea, inizialmente piuttosto ondivaga e incerta. Il primato difensivo e militare degli Stati Uniti certamente ha orientato l’Europa. Ma val la pena di notare che negli ultimi mesi sembra essere emerso un approccio diverso: le posizioni dei vertici europei si sono mostrate a volte più rigide e nette di quelle stesse dell’Amministrazione Biden. Quindi non si può semplicemente nascondersi dietro il dito della subalternità europea e delle responsabilità statunitensi: occorre piuttosto interrogarsi in modo specifico su quale sia l’orientamento dell’Unione europea stessa.
In buona sostanza, allora, è da qui che bisognerebbe ripartire. Dalla costruzione di un’immagine di sicurezza polidimensionale e articolata, con una forte componente non militare: un mondo più sicuro è un mondo in cui si possano smontare e ridimensionare le aggressioni (come in Ucraina) e provare ad uscire dai conflitti permanenti (si pensi alla infinita crisi israelo-palestinese). Non necessariamente un mondo più armato è un mondo più sicuro. Per avvicinarsi a questo obiettivo, non si può che passare dalla paziente realizzazione di una almeno minimale convergenza delle classi dirigenti europee su un disegno strategico di mediazione dei conflitti reali, uscendo dalle illusioni di giocare individualmente da parte di ogni Stato membro. Occorre poi immaginare la capacità di un recupero nelle corde profonde delle culture politiche europee di elementi di identità e di metodo che valorizzino la propria originalità, diversa dagli altri Grandi del mondo e capace di condizionare anche alleati (Stati Uniti) e rivali (gli altri paesi strategicamente importanti). Un vasto lavoro per gli europeisti convinti, se ancora ce ne sono.
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