Negli ultimi giorni si è verificato un nuovo apparente salto di qualità della tragica guerra russo-ucraina. Dapprima alcuni paesi europei in ordine sparso, poi anche l’amministrazione Biden, hanno rimosso il divieto agli ucraini di usare le armi mandate loro dall’Occidente per colpire il territorio russo, come da tempo chiesto dai militari di Kyiv. Una scelta motivata con la necessità di rendere più efficace la difesa ucraina, visto che la loro controffensiva precedente si è spenta e ora le truppe ucraine sono sottoposte ad una nuova pressione russa, soprattutto nella zona di Kharkiv.  Ora, è indubbio che questo ragionamento può anche essere fondato sui fatti, ma certamente sembra avvicinare una condizione di scontro diretto tra i paesi occidentali e la Russia, che fino a questo momento era una previsione su cui la Nato e l’Ue si erano mostrati non a caso piuttosto prudenti. Si tratta di un indubbio azzardo, su cui per ora la contro-reazione russa è stata verbosa, ma non sappiamo che confini avrà.

La questione merita due riflessioni, di metodo e di sostanza.

Quanto al metodo, osserviamo che la decisione sembra essere stata forzata da alcuni paesi europei: in particolare la Francia di Macron che già si è esposto con la dichiarazione secondo cui fosse disposto a mandare truppe francesi sul terreno in Ucraina (per ora molta propaganda: si parla di istruttori militari). Questa pressione ha movimentato un assenso, nella forma è sembrato piuttosto poco entusiasta, dell’Alto rappresentante Borrell e quindi l’adesione di altri paesi. In sostanza, l’Unione si è mostrata ancora una volta a pezzi, capace di procedere solo in ordine sparso, proprio prima dell’appuntamento elettorale per il parlamento che molti continuano a giudicare decisivo: come si fa a credere a una realtà in cui non c’è nemmeno una condivisione delle decisioni più delicate? In cui la presidente della Commissione europea von der Leyen ormai si presenta negli spot elettorali con l’elmetto, come responsabile di una unione in guerra, parlando quasi solo di spese militari e di rafforzamento della difesa? Sembra addirittura incredibile che voci di prudenza in materia siano arrivate quasi unanimemente dalle forze che sostengono il governo italiano (non solo dal presunto filo-russo Salvini, ma anche da Fdi e Forza Italia, con Crosetto e lo stesso Tajani singolarmente moderati nelle loro dichiarazioni). Insomma, il rigido allineamento agli alleati esibito finora dal governo Meloni trova forse qualche benvenuto limite.

La seconda osservazione di metodo è che gli Stati Uniti qui sembrano seguire e non anticipare gli europei. Il che significa che non si può attribuire la decisione all’oltranzismo atlantico. Certo, la figura del segretario generale della Nato Stoltenberg si è distinta in questi mesi per dichiarazioni spesso fuori dal seminato in chiave bellicista, che stimolavano i singoli paesi a prendere questa decisione, sia pur negando contraddittoriamente che fosse una decisione comune della Nato. Ma che l’amministrazione Biden abbia rallentato i flussi di armi verso il teatro bellico e abbia concesso l’autorizzazione a un utilizzo esteso di esse solo dopo gli europei, e con parecchie restrizioni (solo obiettivi militari vicini al confine con Kharkiv) qualcosa significa sotto questo profilo. L’Europa non si può insomma nascondere dietro alla leadership dei falchi di Oltreoceano. Deve assumersi tutte le sue responsabilità.

E qui passiamo alla sostanza. Ancora una volta, quale è il problema? Non è tanto la decisione in sé, che potrebbe essere letta in modo più o meno grave. Il punto vero è la desolante constatazione che si continua a gestire la politica estera e la sicurezza dell’Europa tutta e soltanto con il ricorso al linguaggio delle armi. Fornire o non fornire le armi, quante e quali armi, come usare le armi.  Cosicché anche i pacifisti si attaccano specularmente al punto, chiedendo di revocare l’invio delle armi. Come se il problema risiedesse solo a questo livello.

A me sembra che il problema sia assolutamente diverso. Ci vuole un salto di qualità, del tutto diverso da quello ora percorso. Possono anche essere utili le armi, in alcune limitate condizioni, non discutiamo qui tale aspetto, che ci porterebbe lontano. Ma occorrerebbe sempre collegare la questione militare a quella politica. Si cita spesso del tutto a sproposito von Clausewitz: il famoso detto ottocentesco secondo cui “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, serviva a ragionare sul fatto che la guerra non doveva mai essere un fine in sé. Non era un discorso orientato a militarizzare il mondo. Ogni guerra dovrebbe essere l’ultima ratio per raggiungere un obiettivo politico, anche secondo questo realismo conservatore (non secondo le anime belle dei pacifisti). Torna quindi la domanda: cosa si vuole politicamente ottenere dall’intervento – ripeto, magari anche necessario – a sostegno della difesa ucraina? La riconquista di tutte le regioni orientali? Una improbabile “vittoria totale” sul nemico? Il crollo di Putin e la fine del suo regime autoritario? Oppure un consolidamento del fronte che permetta finalmente di passare alla fase del negoziato? Quanti morti ucraini ancora dovremo aspettare prima di prendere in considerazione questa ipotesi?

Rispetto al negoziato, si sono recentemente diffuse voci attorno a una serie di colloqui avviati sotto gli auspici della Turchia di Erdogan che sarebbero falliti per colpa dell’irrigidimento occidentale (e in particolare del premier britannico Johnson) poche settimane dopo l’inizio della guerra: ne ha fatto cenno Putin nella prima intervista a una testata occidentale degli ultimi due anni. Il premier turco ha fornito un commento non così chiaro. Il racconto, come è del tutto facile capire, manca di troppi tasselli per convincere fino in fondo. Ma segnala che forse sottobanco la diplomazia abbia continuato a muoversi, anche in questi anni così terribili. Lo speriamo. Ma la diplomazia ha bisogno anche di segnali pubblici chiari, non può funzionare senza un riscontro di conoscenza e convincimento delle popolazioni coinvolte. Quindi insomma, non pretendiamo di conoscere tutti gli arcana imperii, ma certo la dichiarazione di convincenti intenzioni in questa direzione renderebbe molto meno preoccupante l’escalation militare in corso.

Né vale l’obiezione secondo cui occorre prima convincere Putin. Perché certo la pace si fa solo in due: ma per fare la pace bisogna cominciare a ragionare con il nemico, non con gli amici. Mi pare anche del tutto controproducente una retorica che dipinge Putin come il nuovo Hitler, da fermare a tutti i costi prima che gli venga in mente di mangiarsi l’Europa: anche a questo proposito, non è questione delle sue intenzioni. Invochiamo semplicemente il realismo: la conosciamo minimamente la situazione economica e militare della Russia? Il limite penoso dei suoi successi nel corso della guerra che poteva sembrare asimmetrica con Kyiv la dice lunga. Putin gestisce un paese in difficoltà molto rilevanti, coltivando il nazionalismo e reprimendo l’opposizione per dare l’impressione di salvare uno Stato fragilissimo. Non pensiamo a una sua conversione, o a una sua qualche resipiscenza, ma un processo negoziale potrebbe anche stimolare il suo (residuo) realismo. Nessuna resa, nessun cedimento: semplicemente la pura ragione della ricerca di un compromesso che fermi le distruzioni e salvi innumerevoli vite umane.

Fin quando non si apre uno scenario di questo tipo, è vano continuare a ballare sul confine della discussione sugli armamenti. Qui ci vuole un salto di qualità, e deve essere propriamente un salto di qualità politico europeo, prima di tutto.

(Foto di Daniele Franchi su Unsplash)

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.