L’approssimarsi della ricorrenza del 40.mo anniversario della scomparsa di Enrico Berlinguer (11 giugno 1984) non ha suscitato sino ad oggi l’attenzione che, tanto sul piano della produzione storiografica quanto a livello della rievocazione e del dibattito giornalistico, ci saremmo attesa. Iniziative volte a delineare un bilancio della sua vicenda politica, al di là di ogni suggestione nostalgica e oltre ogni interessata rimozione, sono, ad oggi, ancora di là da venire. Un Berlinguer sottratto al mito che pure su di lui si è edificato, ma anche ad una sorta di consegna del silenzio o addirittura alla sbrigativa liquidazione che sanziona, senza distinzione alcuna, la presenza nella politica italiana del maggior Partito comunista dell’intero Occidente. Una liquidazione aggravata dalla propensione ormai invalsa alla damnatio memoriae che investe la vicenda dell’Italia contemporanea, con un prima ‒ la “Repubblica dei partiti” ‒ demonizzato sino al ludibrio e un poi ‒ la Repubblica dell’antipolitica – acriticamente esaltato nel segno del “nuovismo”.

Universalmente riconosciute sono comunque la nobiltà della figura, la statura del personaggio, la sua rettitudine morale – una coerenza intransigente dal sapore quasi calvinista ‒, la serietà politica e intellettuale che lo hanno contraddistinto. Un “anti-italiano” solo a pensare a quella “eterna Italia”, magistralmente descritta da Stendhal, che di continuo sembra riprodursi nell’“autobiografia della Nazione” con i suoi vizi secolari: dalla cortigianeria al trasformismo perennemente in soccorso ai vincitori, all’assenza di ogni vincolo di obbligazione ai valori della coscienza. Resta tuttavia il fatto che lo sforzo intrapreso da Berlinguer di rinnovamento del comunismo italiano si infrange di fronte ad un duplice macigno: da un lato, l’assoluta irreformabilità, dall’alto e dal basso, del sistema sovietico ‒ un regime totalitario e dispotico, non semplicemente un «sistema dai tratti illiberali», come egli ebbe a dire ‒, dall’altro, il cumulo di aporie, di convulsioni, di ritardi e contraddizioni dell’intera storia del suo partito.

Dunque, un Berlinguer che rappresenta l’ultimo anello, il passaggio conclusivo della tradizione comunista italiana, di quell’impasto di ideologia, politica e organizzazione definito nei suoi tratti essenziali da Gramsci, poi, tra scarti e adattamenti, da Togliatti, che in lui trova compimento e insieme la propria definitiva consumazione. Quel che segue infatti altro non costituisce che la rappresentazione plastica della necessità non rinviabile di un distacco, di una scissione tanto dei fondamenti ideologici quanto dei percorsi politici. A ben guardare, tutte le principali figure del comunismo berlingueriano ‒ la “diversità”, l’“austerità”, il “compromesso storico”, la “terza via”, l’“eurocomunismo”, l’“alternativa democratica” ‒, oltre a rimandare ad un tempo, per così dire, “archeologico”, estraneo al “mondo nuovo” della nostra contemporaneità, denunciano limiti ed arretratezze di una ideologia e di una cultura politica inabilitata a misurarsi con la modernizzazione e gli sviluppi della vita pubblica del Paese. Lo stesso sforzo da parte di Berlinguer di attestare il suo partito su di un terreno di laicità, di intraprendere un’opera di promozione delle soggettività individuali, particolarmente delle donne e dei giovani, di dare vita e voce ad una cultura planetaria della pace, di sostituire alla contrapposizione tra i blocchi un multilateralismo retto su di un ruolo attivo e propulsivo dell’Europa, alla fine non riesce a far premio sui vincoli che lo legano ad una tradizione comunque non aggirabile, connotata da un “ismo” oneroso, sottoposta alle dure repliche della storia.

Eppure sono le vicende delle cosiddette “seconda” e “terza Repubblica” a restituirci un Berlinguer assolutamente attuale: un leader quasi gobettiano, da leggersi in chiave “volontarista”, persino “idealista”, strenuo propugnatore di una “politica civile”. Da Tangentopoli in giù per li rami, sino alla sconcertante commistione di interessi e potere tra politica e affari di questi giorni, continua infatti a campeggiare la “questione morale”. E non saranno certamente il battage alimentato a piene mani dalla Destra oggi al governo e gli organi di informazione ad essa allineati a trovare riparo e rimedio alla degenerazione emersa, sostenendo che non si è in presenza di fatti penalmente rilevanti. È il Berlinguer dell’intervista a Scalfari del luglio 1981, del saggio su «Rinascita» del dicembre dello stesso anno dedicato al “rinnovamento della politica”, nonché del testo pubblicato postumo nel giugno del 1984, a sottoporre a critica radicale la trasformazione in corso dei partiti, collocandola nel cuore della “questione morale”, intesa come questione dell’occupazione pervasiva dello Stato e delle sue istituzioni, della deriva di un intero sistema di rapporti, di metodi di governo che «vanno semplicemente abbandonati e superati». Da un lato, la denuncia del processo di appropriazione patrimoniale dello Stato e, dall’altro, della tendenziale privatizzazione dei partiti, sino all’appello per un impegno volto ad assumere nell’ordinamento giuridico diritti e conquiste da tradurre «in norme certe e stabili», istituzionalizzandole, «rendendole così generali. […] In tal senso e solo così lo Stato moderno è davvero Stato di diritto, Stato di tutti, Stato democratico».

Dunque, la corruzione non solo come rapina di risorse, ma come sottrazione di democrazia, alterazione delle regole della lotta politica. E la legittimazione dei partiti solo a patto che «stabiliscano un rapporto diretto e continuo con la società […], ne colgano e ne rappresentino i veri bisogni, le aspirazioni reali, ne organizzino la mobilitazione e partecipazione democratica» per «avviare a soluzione i problemi del Paese». La testimonianza di un profeta disarmato che coltiva un sogno inesaudito di riforma morale e politica. Come è stato osservato da Francesco Barbagallo, un’esperienza, quella di Enrico Berlinguer, che delinea la figura di «un riformatore vero sullo sfondo di un’epoca degradata da facili riformismi»: riforma del comunismo, riforma della politica, riforma della società e dello Stato. Un progetto non realizzato, il cui mancato compimento ha dato torto a Berlinguer – la storia ha preso tutt’altra direzione ‒, ma che alla fine, paradossalmente, si traduce in una attestazione delle sue ragioni, nel  dovuto riconoscimento di una eredità.

(Foto di Holapaco77 – commons.wikimedia.org)

  • Paolo Corsini

    Già professore di Storia moderna all’Università di Parma, sindaco di Brescia e parlamentare della Repubblica. Fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.