1. Tra tutte le riforme istituzionali, che periodicamente da decenni vengono proposte, quella attuale del premierato è l’unica che possa essere vista non solo dall’alto dei princìpi ma anche dal basso delle piccole prassi periferiche delle Regioni e dei Comuni, in cui da trent’anni si vota un piccolo premier: il presidente della Regione o il sindaco. Forti dell’investitura popolare diretta e del premio di maggioranza assicurato dalla legge elettorale, essi si sentono e operano svincolati dal controllo non solo dell’opposizione, meno rappresentata rispetto alla propria forza elettorale, ma anche della maggioranza. Ciò dipende dal potere di nomina e revoca degli assessori, che va bene per la governabilità, ma soprattutto da quello, smisurato, di provocare con le loro dimissioni l’automatico scioglimento della giunta e del consiglio.

È ciò che avverrà anche a livello nazionale con il premier eletto dal popolo, specialmente se la riforma dovesse andare in porto tal quale è al momento, sgangherata e intimamente contraddittoria (che accade se nessuno raggiunga la soglia necessaria a far scattare il premio di maggioranza, peraltro non definita? È la domanda a vuoto posta non solo da esperti come Stefano Ceccanti e Peppino Calderisi ma anche dal senatore della destra, Marcello Pera). Essa comunque determinerebbe, pur formalmente non toccandoli, un appassimento dei poteri di garanzia del presidente della Repubblica e, quindi, riprodurrebbe a livello centrale la situazione delle regioni, in cui non esiste sul piano delle garanzie un contraltare del presidente della Giunta, legittimato ad esercitare una moderatura anche solo in termini di moral suasion. Il presidente è un novello monarca assoluto senza contraddittorio nella gestione attiva della cosa pubblica. Perfino nei momenti di crisi politica, come dimostra la recente vicenda, ancora in corso e anzi in fase di stallo, della Regione Puglia.

2. La crisi, finita sulle cronache nazionali, è stata determinata dalle numerose misure cautelari emesse dalla magistratura per vicende legate, tra l’altro, al voto di scambio politico – mafioso. La Direzione distrettuale antimafia ha ottenuto il giudizio immediato, che si svolgerà prossimamente davanti al tribunale. È il trasformismo di soggetti che nella compiacenza bipartisan galleggiano tra uno schieramento e l’altro, pronti a scambiare il voto pur di continuare nel loro affarismo quale che sia la maggioranza: occupando anche posti in giunta o, se i voti sono insufficienti ad eleggere un rappresentante ma comunque contribuiscono all’elezione del presidente, in agenzie regionali o aziende partecipate.  Del voto di scambio sono protagoniste soprattutto le “liste civiche”, senza storia e senza idealità politiche che non siano l’occupazione del potere. La specializzazione propria, come ha raccontato un loro esponente al magistrato, è la “politica indiretta”, cioè la raccolta di voti a favore del candidato che loro promette di più. Un traffico opaco, contiguo e spesso parte di quel “mondo di mezzo”, come lo definì il principale imputato di un processo romano, in cui “le persone di quel tipo, di qualunque ceto, si incontrano tutte là e anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno”.

Nel caso il fenomeno ha attinto – oltre ad una consigliera comunale, eletta con una lista civica di destra anche se in corso di consiliatura passata ad un gruppo civico di centrosinistra (nel giudizio il Comune di Bari ha la veste di persona offesa) – soprattutto un’assessora della giunta regionale di centrosinistra. Pronte dimissioni ma ormai non si poteva far finta di nulla come s’era fatto negli ultimi tempi davanti alla corruzione contestata giudizialmente a presidenti di alcune agenzie regionali di nomina presidenziale, culminata nell’arresto e nella condanna in primo grado del fiduciario dirigente della protezione civile.  Anche il vescovo Giuseppe Satriano, nel messaggio indirizzato alla città in occasione della festa di san Nicola, ha stigmatizzato la degenerazione “di chi ha fatto della politica un mestiere e non un servizio, costituendo un blocco affaristico sempre capace di sopravvivere a ogni cambio di fronte politico”. Straordinariamente, rispetto ad una prassi di appiattimento, i partiti di maggioranza hanno ripreso a svolgere una funzione dialettica nei confronti del presidente e della sua giunta. Non sempre, per vero, con la limpidezza di chi ci crede davvero e vuole andare fino in fondo. I Cinque stelle compiono la scelta più drastica, uscendo dalla giunta, ma accomodandosi immediatamente in sala di attesa di provvedimenti per assicurare la legalità, cui subordinano evidentemente il rientro in giunta. Sinistra italiana, invece, passa all’opposizione – ideale, non avendo rappresentanti in consiglio – ma solo dopo che la sua assessora, già in precedenza dimezzata nelle deleghe, viene senza creanza dimissionata. Il Pd rimane in giunta, ovviamente, ma, dopo aver fatto il sacrificio di esonerare il proprio capogruppo consiliare da tempo imputato in un processo per corruzione e tuttavia rimasto imperterrito al suo posto, preme per qualcosa di più del semplice “rimpastino” di giunta. Se si aggiunge lo stato di decomposizione di due dei tre gruppi “civici”, che sostengono la Giunta (“Sud al centro”, quello dell’assessora, e “Senso civico”, i cui maggiori esponenti sono agli arresti), ne risulta all’apparenza una situazione in movimento con i partiti che riprendono le redini di controllo del governo della regione.

Ma il rimpasto non si è ancora completato (rimangono vacanti due caselle) e comunque a farne finora le spese sono stati i due assessori esterni: la detta assessora all’ambiente di sinistra italiana e quello alla salute, un ex deputato e assessore di Forza Italia. Comunque se ne giudichi la politica – ma il giudizio dei più è stato sufficiente sotto il profilo tecnico – non c’entravano affatto con il sistema corruttivo per cui era stato richiesto a viva voce di voltar pagina. Insomma, un’eterogenesi dei fini.  Ciononostante le proteste dei partiti sono rientrate. Del resto, la richiesta di una svolta radicale in Puglia era pervenuta non dal livello regionale dei partiti principali, Pd e Cinque stelle, ma da quello centrale, delle segreterie nazionali, subito dopo tuffatesi nella campagna europea e magari in attesa dei risultati elettorali o che passi la nottata.

3. La vicenda pugliese è emblematica, come si diceva, della crisi della rappresentanza politica al tempo dell’elezione di un uomo solo al comando. La convocazione periodica del popolo solo per dare un’investitura assomiglia ad un plebiscito. Una “democrazia del pubblico” (Bernard Manin), in cui l’elezione avviene sulla base dell’immagine, e non dell’adesione ad un partito. Il quale però deve comunque sostenere l’eletto perché uno scollamento li farebbe cadere entrambi: simul stabunt aut simul cadent. La conseguenza, tuttavia, è che i deficit della politica di governo finiscono per coinvolgere anche il partito, privo di una propria elaborazione perché il dibattito interno è assente. Di frequente in questi anni è stato così in Puglia:dalla politica per la casa, con proroghe continuamente bocciate dalla Corte costituzionale, a quella della salute, i cui conti beffardamente sono stati un po’ raddrizzati dal detto  ex assessore e deputato di Forza Italia, alla blanda opposizione all’autonomia differenziata, ferma alla parola d’ordine “prima i lep” pronunciata in un’affrettata seduta del consiglio regionale: una condizione ritenuta largamente insufficiente per impedire un regionalismo competitivo invece che solidale, destinato inevitabilmente, in mancanza dell’attuazione del preliminare fondo perequativo previsto dall’art. 119 Cost., ad aumentare il divario tra le regioni e a minare la Repubblica “una e indivisibile”.

Questa verticalizzazione della rappresentanza politica – variamente definita come democrazia del leader, autocrazia elettiva, anche capocrazia –   ha subito un input decisivo dalla legge elettorale, che, dando un’investitura popolare al presidente della giunta, elimina l’intermediazione dei partiti tra l’elettorato e il governo regionale (come anche comunale e in futuro, se approvato il premierato, nazionale). Ed ha origini teoriche e politiche preoccupanti perché si tratta della tesi di Carl Schmitt, divenuto nella sua grandezza di studioso il più autorevole giurista del regime nazista. Il “nomos”, ogni ordinamento costitutivo – religioso, politico o sociale – deriva, secondo la sua teoria, da un popolo spiritualmente e politicamente unito senza divisione in organizzazioni sociali, senza cioè l’intermediazione delle formazioni sociali di cui all’art. 2 della Costituzione. Del resto, la Costituzione servirebbe solo a dare forma a quell’unità politica già esistente e a individuarne il custode unico, il capo, il Führer.

4.La conseguenza più vistosa è la crisi dei partiti come associazioni di rilevanza costituzionale. Non solo per il numero degli iscritti, assai ridotto, essi non sono più luogo di discussione e di decisione, i pochi circoli rimasti sono i classici “non-luoghi” – studiati da Marc Augé ‒ privi di identità, relazioni sociali, storie condivise, connessioni personali e sentimentali che non siano via chat. Gli organi collegiali si riuniscono di rado e sanno di non avere l’autorità sostanziale, né la volontà, di fare delle scelte, assumendosene la responsabilità e, se sbagliate, pagandone le conseguenze politiche anche personali. Sono ormai solo comitati elettorali, piccole oligarchie del ceto dei rappresentanti, non dissimili dalla pletora dei non-partiti per autodefinizione, i cosiddetti “civici” senza storia e solo con l’aspirazione ad esercitare il potere. 

Così ridotti, essi non sono in grado di svolgere il compito costituzionale di determinare la politica nazionale, elaborando programmi e controllandone l’attuazione. Anzi ordinariamente ci passano sopra pur di occupare le istituzioni, con il seguito di Asl, aziende partecipate e agenzie regionali, non di rado con gli stessi loro dirigenti in uffici non elettivi ma di nomina presidenziale. Così la loro funzione pubblica viene meno perché non sono più separati ma sono immedesimati nel potere pubblico, ne diventano organi. Si capisce allora perché finora in Puglia, pur se talvolta tra qualche mugugno (ma il più clamoroso che si ricordi è stato corporativo: avevano proposto di ripristinare con effetto retroattivo il trattamento di fine mandato, suscitando un’ondata popolare di sdegno), per i partiti tutto ciò che faceva il presidente era ben fatto.

Il processo di liquefazione dei partiti è di carattere generale. La loro personalizzazione conduce alla rinuncia alla posizione di garanzia e di controllo e li espone alla forza avvolgente del sistema corruttivo nella gestione della cosa pubblica. A testimoniarlo, in Puglia come in Liguria e altrove, è la catena di atti (alcuni anche penalmente accertati) posti in essere da personale fiduciario del presidente della Regione nella dirigenza dell’amministrazione, nelle agenzie regionali, finanche negli assessorati. E poiché la moneta cattiva scaccia la buona il contagio si estende anche ai partiti residui, allo stesso Pd, che a livello locale appaiono specie di confederazione di gruppi civici, che fanno capo – come quelli di formazione “spontanea” – a singole personalità ciascuna con il proprio pacchetto di consensi. Si potrebbero definire con Zygmunt Bauman “neo-tribù”. “Tribù”, per l’annullamento delle differenze individuali in favore dell’identità collettiva. “Neo”, perché diversamente dalle tribù classiche non durano più a lungo dei loro membri. Anzi spesso durano lo spazio di una, due consiliature, cambiando pelle, contaminandosi, risorgendo dalle ceneri secondo convenienza.

Questo fenomeno corruttivo della democrazia rappresentativa si constata, come detto, soprattutto a livello locale. Non ha invaso ancora il livello centrale, dove la rappresentanza per quanto traballante passa ancora attraverso i partiti nazionali. Per attecchire ha bisogno di una legge, come ne ha avuto bisogno a livello locale. È questa la funzione del premierato in salsa governativa, con tutti gli effetti che la vicenda pugliese ha messo in vetrina e che si trasferirebbero a livello nazionale. La Puglia è una metafora.

(Foto: Saggittarius A – commons.wikipedia.org)

  • Nicola Colaianni

    Magistrato e professore ordinario all'Università di Bari, dove ha insegnato Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, Diritto costituzionale della pace e Ordinamento giudiziario. È stato deputato per il PDS nella XI legislatura dal 1992 al 1994.